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Film leggendario, quasi una chimera, un’ossessione che per decenni ha abitato nella testa di Terry Gilliam.

Margherita Fontana e Carlotta Magistris ci raccontano la loro esperienza surreale, come sempre accade coi film del cineasta britannico.

The Man Who Killed Don Quijote – visto da Margherita Fontana

L’ultimo film di Terry Gilliam è veramente, come si suole dire, la sua ultima fatica: presentato a Cannes, The Man Who Killed Don Quixote viene alla luce dopo 29 anni di vicissitudini finanziarie e personali, diventate a loro volta un documentario (Lost in La Mancha, 2002). Curioso, perché il
film sembra proprio parlare di questo: intrecciando la biografia e il romanzo, il presente e il passato, nonché registri cinematografici differenti (il mondo hollywoodiano e il filmato studentesco indipendente, solo per citarne due), il film descrive in modo articolato un processo creativo mentre omaggia il classico di Cervantes.

Nel mondo inquietante e satirico, pur senza diventare feroce, creato da Gilliam, il punto di vista che viene raccontato non è quello del protagonista Don Chisciotte (Jonathan Pryce, già in Brazil), ma piuttosto quella di Sancho Panza (Adam Driver), alter-ego del regista. Forse perché solo la prospettiva sulla storia restituita dal comprimario può svelare cosa significa dare forma ad una storia, un’idea, un film: un viaggio disperato, in un territorio fitto di pericoli all’inseguimento di un fraintendimento della realtà.

The Man Who Killed Don Quijote – visto da Carlotta Magistris

Noto esempio di development hell, con otto tentativi di realizzazione da parte di Terry Gilliam nel corso di una ventina d’anni, L’uomo che uccise Don Chisciotte è la storia di un giovane regista di spot pubblicitari, incarnato da Adam Driver, che cade vittima della propria opera, reincontrando – diversi anni dopo aver girato in un piccolo paesino della Spagna il proprio film di laurea basato sul Don Chisciotte di Cervantes – i personaggi che hanno animato questo progetto, al tempo lasciati pieni di aspettative. Quello che si trova davanti è una schiera di personalità deviate, in particolare l’uomo che al tempo incarnò Don Chisciotte, convinto fra il conscio e l’inconscio di incarnare ancora quell’identità, scambiando il protagonista per Sancho Panza e creando una serie di gag alienate. Più in profondità, una riflessione sul fare cinema, sull’illusione e la perdita dell’illusione, sulla crisi di identità e sulla crescita individuale; un lavoro ambizioso e magniloquente che resta efficace per gli amanti del genere e dell’autore, perdendosi in una modalità narrativa tipica del cinema di Gilliam fatta di situazioni paradossali e una comicità di pancia ma non apre le porte a un eventuale altro tipo di pubblico, che fatica ad andare oltre lo stile narrativo incalzante e a tratti ripetitivo per rintracciare la macro-riflessività della storia in maniera pregnante.

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