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Il Verdetto, tratto dal romanzo “La ballata di Adam Henry” di Ian McEwan, vede la straordinaria prova d’attrice di Emma Thompson, ma basta a giustificare i plausi quasi unanimi?

Elena Saltarelli ci offre una prospettiva “fuori dal coro” in una recensione particolarmente ispirata.

Il Verdetto – visto da Elena Saltarelli

Grande era l’aspettativa, una volta scoperta l’uscita di questo film. Una parte era dovuta al fatto che un regista teatrale britannico (Richard Eyre) decidesse di dirigere un film che ha come oggetto un caso giudiziario e una parte era dovuta alla natura del film stesso, trasposizione cinematografica del libro La ballata di Adam Henry, scritto da uno scrittore che amo molto, Ian McEwan (Espiazione, ndr).
Mi aspettavo già di sentire il peso di quella sublimazione emotiva che per loro natura gli inglesi si portano addosso, di sentirmi trascinare giù dalla durezza della scelta che è il fulcro dell’opera e di poter percepire la grandezza delle conseguenze che tale scelta comporta. Ma non è stato così, o meglio: poteva essere così, ma a un certo punto alcuni elementi mi hanno distolto dall’accento di gravità che doveva essere mantenuto inalterato e hanno reso gli ultimi 45 minuti frettolosi e deludenti.
Prima di tutto, la visione del regista riguardo ad alcune scene: come la scena del concerto di Fiona Maye, dove sono stati inserite delle inquadrature al ralenti che hanno tolto l’effetto di oppressivo senso di colpa che la protagonista stava provando durante l’esecuzione. Nondimeno, il complicato rapporto con il marito non viene compreso e spiegato con la debita onestà cinematografica: la scena finale di riavvicinamento viene inglobata dall’imminente morte del ragazzo, relegando il marito nella sfera del comprensivo amico che deve ascoltare, benché ferito. La sensazione principale, inoltre, è che la protagonista in questo film ha un valore preminente sul resto: sulla difficile situazione che le si presenta, sull’amore immaturo e disperato che Adam prova per lei, sulla malattia di quest’ultimo. Tutte le azioni che coinvolgono Adam (i suoi pedinamenti, il componimento delle sue poesie, la sua disperata corsa sotto la pioggia, la sua morte) sono negate ai nostri occhi e vissute solo attraverso di lei, e la grande sofferenza della sua prossima fine è liquidata con una frase della giudice – what a lovely boy.
Nel complesso è un buon film, ma non è il capolavoro che mi aspettavo: risente troppo del debito ad altre tipi di arti (in questo caso, la letteratura e il teatro) non riuscendo a emanciparsi mai del tutto, e non riesce a depositare sulle nostre spalle il grande masso del dramma, rimanendo inevitabilmente tra le sue braccia.

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