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Criticato e osannato, Joker è il comic book movie di maggior successo di sempre.

Ce ne parlano Sofia Brugali, con la sua visione molto ispirata, e Virginia Carolfi, con una piccola digressione sul “riso” (non inteso come cereale).

JOKER – visto da Sofia Brugali

La vittoria del Leone d’Oro alla 76esima Mostra del Cinema di Venezia ha dato a Joker di Todd Phillips una grandissima notorietà, attirando di conseguenza sul film l’attenzione mediatica in un coro dissonante di lodi e condanne. A dividere la critica, però, non è tanto la sua mera qualità cinematografica, quanto l’elemento di analisi sociale in esso insito, che si esprime, come spesso accade, attraverso lo strumento della violenza.
Spaventati da una rappresentazione tanto cruda della forza bruta, che viene descritta dal regista in maniera lucida e acritica, molti hanno gridato allo scandalo, immaginando un’armata di lone wolves pronti a giustificare le proprie azioni nel confronto tra la propria storia e quella di Arthur Fleck, in una sorta di wertherismo per l’uomo moderno che all’intimità del suicidio, atto che lascia pressochè nell’anonimato, preferisce la rapida fama dell’omicidio di massa.
Eppure, come afferma lo stesso regista, il film “non è un appello all’azione, ma semmai un appello alla società all’autoriflessione”. L’opera di Phillips non è un elogio della violenza e nemmeno la riabilitazione della figura di un supercattivo, ma è un lavoro di demistificazione: la nemesi di Batman, finalmente libera dal fardello della sua controparte eroica e dunque non relegato al ruolo di co-protagonista, si rivela per quello che è, ovvero un anomimo essere umano in una società indifferente. Il dualismo bene e male viene fatto a pezzi, così come viene questionata la morale dello spettatore, che finisce con l’empatizzare con il personaggio. Un processo che è possibile grazie soprattutto a Joaquin Phoenix, che ha dato vita a un’interpretazione di straziante sincerità.
La parabola di Arthur Fleck, insieme alle critiche ricevute dal film a cui ho accennato, mi hanno riportato alla mente un altro personaggio, protagonista di un racconto che a suo tempo ebbe una ricezione incredibile: mi riferisco a Michael Kohlhaas, creato dalla geniale penna di Heinrich von Kleist agli inizi del XIX secolo. In breve, la storia tratta di un commerciante di cavalli che, a fronte di ripetuti soprusi da parte di un signorotto locale, non essendo riuscito a ottenere giustizia per vie legali, si dedica alla vendetta: uno dei temi principali è dunque quello del rapporto tra singolo e collettività, tra giustizia e resistenza. È una materia politica che nel Joker diventa prerogativa esistenziale, nel momento in cui il diritto di resistere viene a coincidere con quello di esistere.
Il confronto tra le due opere e i rispettivi protagonisti è alquanto rivelatore per poter meglio comprendere il film. Kohlhaas è il modello del buon cittadino, sposato, stimato dai propri vicini; è dunque riduttivo e conveniente fare delle azioni di Fleck il semplice delirio di un uomo solo e mentalmente instabile.
È la logica, non la pazzia, a unire queste due figure: all’ingiustizia, o meglio all’impossibilità di porre rimedio all’ingiustizia, essi rispondono prima con la rabbia e poi con la violenza, in un’escalation terribile, eppure razionale. Come Kohlhaas, Fleck è un “ripudiato”, ovvero “colui al quale si nega la protezione delle leggi”: è il loro personale senso di giustizia a renderli “briganti e assassini”.
Entrambi non sono rivoluzionari, ma la loro azione, come ogni azione umana, dà vita a risultati inaspettati ed essi divengono simboli della lotta collettiva: sono la miccia nelle mani del Fato che va ad incendiare una società già sull’orlo del rogo. E ciò che sorprende di più è che la legna da ardere sia la stessa in entrambi i casi: disuguaglianza e ipocrisia uniscono il nostro secolo e quello di Kleist.
Oggi come allora, coloro che vedono solo la violenza non si accorgono che Joker è prima di tutto una storia di sofferenza: ho trattenuto a stento le lacrime vedendo il corpo pallido di Phoenix contorcersi nella caratteristica – dolorosa – risata di Arthur Fleck. E alla fine del film, tornando a casa, avrei voluto abbracciare tutti i passanti, non riempirli di pallottole.
Non è forse poi vero che spesso proiettiamo nelle opere d’arte una parte di noi stessi?

JOKER – visto da Virginia Carolfi

Difficile aggiungere qualcosa alle migliaia di recensioni che sono piovute su questo film, soprattutto se sono ispirate come quella di Sofia Brugali che mi precede. All press is good press, e Joker ha certamente beneficiato della valanga mediatica che lo ha investito fin dalla sua presentazione alla Mostra del Cinema di Venezia. La vicenda di Arthur Fleck è stata sminuzzata, analizzata, digerita e risputata, mostrando come “il sonno del welfare genera mostri”, tanto per parafrasare Goya, ma c’è un aspetto che più di altri mi ha colpito in questa pellicola, ricca (anche troppo), di spunti e j’accuse.
Ridere è un’azione sociale; due persone che ridono di qualcosa (una battuta, una vicenda, un film) stabiliscono immediatamente un legame, è come se inconsciamente dicessero “abbiamo un terreno comune”. Motivo per cui l’humour è caratterizzato da elementi quali il paese e la cultura di provenienza, il background sociale etc… Per usare una immagine di Goffredo Fofi, Woody Allen deve il suo successo al fatto che presentava una comicità nuova per l’epoca, faceva ridere i fighetti di allora, e forse anche quelli di oggi. Ecco perché una delle scene più significative di Joker resta, a mio parere, quella in cui lui assiste a uno spettacolo di cabaret e ride sempre a sproposito. Una sequenza breve ma agghiacciante, che fa venir voglia di urlare, di farlo tacere, e di abbracciarlo. Arthur, che più di ogni cosa desidera far ridere gli altri, è un emarginato della risata: il suo isolamento risiede anche nella sua totale lontananza da ciò che fa ridere gli altri. Le sue battute, a suo parere esilaranti, non possono nemmeno essere considerate tali. La gente, capitanata da un impareggiabile Robert De Niro, ride di lui e non con lui. La stessa risata di Arthur è anomala, come lo è il disturbo che per un perverso gioco del destino lo obbliga a ridere nei momenti meno opportuni, scatenando le ire di chi si sente preso in giro. Perché è questo che temiamo, no? Di essere anche noi emarginati, derisi, che un nessuno come Fleck possa permettersi di ridere di noi.

Eppure, c’è ancora qualcosa d’altro che Phillips pare volerci dire. Joker è indubbiamente un film über-drammatico ma presenta alcuni tratti da commedia; gag slapstick in momenti drammatici (prima fra tutte la scena in cui Fleck sbatte la faccia contro la porta a vetri dell’ospedale), spezzoni di film comici in bianco e nero, Ginger Rogers e Fred Astaire che ballano nella tv di casa. I titoli di testa e di coda non mentono, il riferimento è al grande cinema hollywoodiano, ma perché? Nostalgia, contrasto, critica delle apparenze. Di certo il regista, come il buon Arthur Fleck, pare rimpiangere un’epoca in cui ridere era molto più facile di adesso. E forse pare dirci di non prendere mai niente troppo sul serio, alla fine si tratta solo di un personaggio della DC.