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Prodotta e impacchettata da Netflix, La Ballata di Buster Scruggs dei fratelli Coen si presenta con una struttura che ricorda l’intento originario di questo film, ovvero una serie di cortometraggi/episodi dedicati al vecchio West. La morte – si noti, sempre causata da mano umana e mai dalla Natura – svolazza liberamente in queste due ore di sparatorie, carovane, indiani e imbonitori; rifacendosi all’atmosfera tipica delle ballate musicali, Joen ed Ethan ci regalano una riflessione postmoderna che manca forse di mordente ma abbonda in tristezza.

A voi tre recensioni piuttosto discordanti ma molto accorate da Sofia, Margherita ed Elena.

La Ballata di Buster Scruggs – visto da Sofia Brugali

Il nuovo lavoro dei fratelli Coen riprende l’ambientazione western per una serie eterogenea di sei cortometraggi uniti da una cornice molto semplice, una mano che sfoglia una raccolta di novelle intitolata La ballata di Buster Scruggs e altre storie della frontiera americana. Pensati per una fruizione a puntate, gli episodi presentano tematiche ed espedienti tecnici assai vari, mentre costante rimane il paesaggio americano delle vaste praterie e delle foreste montane: il lungometraggio risulta così essere estraniante per lo spettatore, che in due ore conosce e perde personaggi con cui ha incredibilmente il tempo di empatizzare. Le storie sono un rapido fluire di vite, tragicomiche esistenze che sperimentano il proprio percorso verso la morte, piccole parentesi indifferenti alla natura circostante: la grandezza delle gesta dei cowboy, l’aura mitica dei racconti ricamati sulle loro imprese, persino l’eroismo della vita quotidiana e l’immutabilità della morte, ogni cosa si rivela inconsistente di fronte alla piccolezza dell’essere umano.

La Ballata di Buster Scruggs – visto da Margherita Fontana

Con La Ballata di Buster Scruggs (e altri racconti) i fratelli Coen vestono i panni degli scrittori di western, dedicando un’opera intera ad un immaginario in cui hanno spesso sguazzato. Nel caso di questa produzione Netflix infatti i Coen si fanno narratori di brevi episodi, tratti da un finto volume sulla conquista del West. Le pagine illustrate del libro si dispiegano di fronte a noi come avviene all’inizio di in una fiaba Disney. Tuttavia, contrariamente a quanto accade nei cartoni animati, alla fine di ogni corto qualcuno muore (male). Cinquanta sfumature di morti, surreali, grottesche, inutili, casuali, tragiche, sembra questo infatti il fil rouge di un film che incomincia con un’assunzione in cielo musicata “dal vivo” e si conclude con una lugubre discesa agli inferi. La fine cantata dai Coen non è solo quella di un genere, il western, ma anche di una cultura o della cultura in generale (meglio un gallina che sa contare che un attore shakespeariano, del cui corpo per giunta non resta poi molto). Insomma la morale, calata in un film non abbastanza tagliente per essere satirico (o almeno divertente), trasforma questa raccolta di apologhi in un noioso mattone.

La Ballata di Buster Scruggs – visto da Elena Saltarelli

Questa antologia, che porta la firma nientedimeno che dei Fratelli Coen, si potrebbe riassumere, almeno a livello prettamente impattante sullo spettatore, con due parole.
La prima parola è fascino: il fascino, prima di tutto, del genere che hanno deciso di indagare, ovvero il western, un genere che porta con dignità i tantissimi anni che ha e che affonda le sue lunghe radici nel mito dell’Ovest, che dagli anni ’50 dell’ Ottocento ha posto le fondamenta della cinematografia mondiale a suon di spari, di corse di cavalli e di stivali di pelle. Un genere che i due registi hanno riadattato a un pubblico contemporaneo e post-contemporaneo alla perfezione, con una prova di regia superba e senza mai scadere nel banale citazionismo di grandi del passato o in una rilettura nostalgica dei “bei, ma mica tanto, tempi andati”. Il fascino poi dello sviluppo della narrazione, evocativo e avvincente, in cui sono i personaggi a essere padroni delle sconfinate praterie: personaggi che sono sempre stati il punto forte della regia dei Coen, figure che con poche e azzeccatissime frasi riescono a rimanere impressi per il loro spessore espressivo e psicologico. Tutto in quest’opera aveva fascino da vendere: l’apertura a mo’ di musical western (genere ibrido che ebbe il suo apice di popolarità all’inizio degli anni ’50); l’alternanza ritmica ma inaspettata di momenti divertenti e drammatici; Tom Waits nei panni di un cercatore d’oro (il mio cuore – che non si è informato prima della visione del film – ha saltato un battito).
La seconda parola, invece, è morte. Ogni singolo episodio dei racconti raccolti dai Coen ha come elemento comune la morte, che sia essa drammatica e ingiusta, deliberata e spettacolarizzata, inevitabile ma sconcertante. Si parte con la morte del cantastorie Buster Scruggs, proseguendo spediti attraverso esecuzioni, fucilazioni e battaglie, posandosi leggera nel caso della triste fine dell’attore di strada privo di gambe e braccia, o dell’insicuro suicidio della giovane attaccata dai pellerossa. La morte a mio avviso è la vera protagonista dell’antologia, perché così era nelle infinite e desertiche praterie del Vecchio Ovest; un luogo e un’epoca che davano poche speranze di una vita lunga agli uomini che l’hanno vissuta.
Concludendo, il film ha confermato come questi due registi riescano a coniugare ricercatezza e qualità con una inaspettata leggerezza, cosa per niente facile e sicuramente non da tutti.

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