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Ultima fatica di Quentin Tarantino, Once upon a time in… Hollywood ha gustosamente diviso la nostra redazione, tanto da farci produrre una ispirata digressione dedicata a Charles Manson e Mindhunter.

A voi le parole di Margherita Fontana, Vanessa Mangiavacca ed Elena Saltarelli.

ONCE UPON A TIME IN… HOLLYWOOD – visto da Margherita Fontana

Più che una recensione un parere spassionato.
Nell’era in cui tutti, me compresa, si sentono autorizzati a recensire qualsiasi cosa – non solo film – mi permetto solo di fare una breve riflessione riguardo all’ultimo film di Tarantino. Tante sono le cose (giustamente banali) che sono state dette e che potremmo dire ancora. Il film chiude chiude la trilogia non ufficiale del Revisionismo Storico, i cui precedenti capitoli sono Inglorious Basterds (forse l’ultimo vero capolavoro di Tarantino) e Django Unchained. C’era una volta a… Hollywood racchiude palesemente i precedenti capitoli della saga: ci sono nazisti polverizzati da lanciafiamme, cowboy, pistoleri, saloon.
Ingrediente fondamentale, quanto estremamente prevedibile, del cocktail di Tarantino è ancora una volta il citazionismo: ed ecco che ritorna il solito omaggio a Sergio Corbucci, citato letteralmente già ne Le Iene, ripreso in Django Unchained, qui reso oggetto di riappropriazione. Tarantino piazza il suo Leonardo di Caprio/Jake Cahill/Rick Dalton in film esistenti o inventati del regista italiano. E non solo.
Qui si potrebbero spendere molte parole, e fortunatamente è già stato fatto da cinefili molto più preparati di me, per ricostruire tutti i riferimenti esatti, risalire al numero delle puntate televisive degli anni ’60 direttamente riprese, ripercorrendo con lo sguardo tutte le inquadrature a caccia del minimo indizio.
Potremmo (ancora!) formulare teorie ardite sull’ennesima prova di postmodernismo di Tarantino, che si serve delle tecnologie digitali per mettere in scena riflessioni meta-cinematografiche sul senso del dispositivo e sulla sua storia (e altre supercazzole degne de @Il cinefilo nell’era di internet).
Non riesco a non allontanare da me l’impressione che tutto ciò non sia altro che un’articolata impalcatura, fatta per nascondere o veicolare un’ideologia conservatrice. La nostalgia dei tempi d’oro di Hollywood, la cui fine coincide con l’omicidio di Sharon Tate, mi sembra in realtà nostalgia di quei bei tempi andati in cui la mascolinità a una dimensione era semplicemente considerata eroica, i personaggi femminili stavano zitti e ballavano soltanto (in quasi tre ore di film la voce di Margot Robbie si sente per sì e no 10 minuti) e le minoranze etniche potevano essere prese a calci in culo senza che nessuno si offendesse (vedi Bruce Lee).
Mescolare etica ed estetica è sempre una scelta rischiosa, ma la domanda sorge spontanea: gli Stati Uniti di Trump avevano bisogno di un’ode al machismo? La tesi espressa da Tarantino è dunque discutibile per una ragione molto semplice: non si può avere nostalgia di cose che, come la mascolinità tossica e il disprezzo per l’altro, abitano il presente.

Mi consolo stando al gioco, ripensando alla scena in cui Brad Pitt aggiusta un’antenna TV a torso nudo. Purtroppo questo è ciò che salvo di queste due e quaranta.

ONCE UPON A TIME IN… HOLLYWOOD – visto da Elena Saltarelli

C’è tantissimo da dire sul nono film di Tarantino. Tantissimo e allo stesso tempo poco, perché per chiunque abbia a cuore la filmografia del regista di Kill Bill e Django, per quei 160 minuti in sala sembrava di averlo accanto, un Tarantino non più di quest’epoca, un Tarantino che finalmente si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa e omaggiare tutto ciò che ha sempre amato. Proprio perché c’è tantissimo da dire – da Bruce Lee brutalmente umiliato da un Brad Pitt versione stuntman/galoppino hollywoodiano, a una Sharon Tate che come una ninfa si aggira nella pellicola senza realmente essere nulla, evanescente e splendida, come l’acqua di torrente quando sei assetato – mi concentro su una cosa sola, a mio parere la più simbolica dell’intero film, quella che mi ha acceso la lampadina in testa e mi ha fatto dire “ooooh”: il finale.
Che cosa voleva Charles e tutta la Manson Family, quando attuarono gli omicidi di Cielo Drive nell’agosto del 1969 (“il più caldo degli ultimi anni”)? Volevano diventare parte di quella pop culture che tanto agognavano, essere inseriti – bene o male – nell’immaginario americano della dorata e sfavillante Hollywood.
Tarantino, a suo modo, nega a Manson quella dignità iconica che egli desiderò così ardentemente. Immaginando come sarebbe potuto andare se un ubriachissimo Rick Dalton e un Cliff Booth in trip avessero sbarrato la strada ai seguaci della Manson Family senza quasi farlo apposta, troncando di netto ciò che sarebbe accaduto poi nella vietta in salita di Cielo Drive, e relegando il fenomeno Charles Manson a un trafiletto da leggere mentre si beve il caffè a colazione. Un gesto d’amore di Tarantino verso un episodio della storia americana e verso i protagonisti di quell’episodio – un gesto d’amore un po’ manierista, ma pur sempre un gesto d’amore.

Psycho killer: Qu’est-ce que c’est ?-  a cura di Vanessa Mangiavacca 

“Ho sempre pensato che fosse stato Manson a uccidere Sharon Tate. E invece no. Nel senso lui in persona. È stato Tex Watson a orchestrare tutto ma nessuno sa chi è. Non è molto chiaro ma sembra che Manson sia stato usato come capro espiatorio nella vicenda. Cioè è un prodotto del caos mediatico e dell’immaginario collettivo.” Silenzio. “A casa farò qualche ricerca. Anzi sai cosa, riguarderò la quinta puntata di Mindhunter. E poi Rosemary’s Baby”. Dall’altra parte, ancora silenzio. Occhi sbarrati che cercano la scritta Uscita. Penso a qualcosa di costruttivo da dire sul film, lontano da sette, cospirazioni e omicidi. “Beh comunque la figlia di Uma Thurman è tale quale sua madre”.

LafigliadiUmaThurman, che ahimè non sarà mai ricordata con il suo vero nome (Maya Hawke) e che vanta la parte più inutile di tutto il film. Ma è con lei che si conclude la mia brillante conversazione psycho a little bit psycho all’uscita del cinema, dopo avere visto la nona fatica di Tarantino. Hype piuttosto alto e dopo due ore e quaranta l’unica cosa su cui riesco a focalizzarmi è quel nanetto di Charles Manson, che nel film compare una manciata di minuti: ghigno malefico e se ne va, senza proferire parola. Eppure la stessa persona l’ho sentita parlare qualche ora prima, nella quinta puntata della seconda stagione di Mindhunter. Esatto, perché entrambi i Manson sono interpretati dallo stesso individuo: l’australiano Damon Harriman (conosciuto per il ruolo di Dewey Crowe in Justified). Per chi ha seguito Mindhunter (vero capolavoro cinematografico e intellettuale) e si è lasciato liberamente inghiottire dal clima fincheriano, sapeva benissimo che prima o poi si sarebbe scontrato con lui, il più pericoloso uomo d’America. Manson è importante per gli agenti Ford e Tench perché permette di tracciare un nuovo profilo, non quello di un serial killer vero e proprio ma di un uomo che ha convinto ragazzini ricchi e di buona famiglia a uccidere per lui. Nonostante l’ingente materiale raccolto attorno alla Manson Family, molti eventi sono poco chiari, come dimostra anche l’intervista fatta in carcere. Al di là delle verità, i due agenti dell’FBI se ne vanno con un interrogativo. E se Manson fosse davvero il capro espiatorio per giustificare i comportamenti di una generazione “educata da voi” (l’America di fine anni ’60), che “non ha indotto nessuno a fare niente di diverso da quello che volevano fare”?

Damon Harriman è pazzesco, la sua interpretazione è magistrale, come del resto tutte quelle degli altri serial killer che si alternano nei molteplici livelli narrativi della serie. Come Harriman ha dichiarato in più interviste, due settimane dopo aver girato la scena in carcere Tarantino chiede a lui
di interpretare la parte nel film. Per Mindhunter Harriman ha dovuto sostenere ben tre provini, e quando arriva a quello per Tarantino, egli è già perfettamente calato nella parte dopo cinque mesi passati a studiare il personaggio. E se nella serie Harriman si trova a ricoprire un ruolo  drammatico, un Manson cinico e arrabbiato con il mondo, nel film è più scanzonato, quasi divertente: così rivela l’attore dopo l’uscita del film, ma ahimè, probabilmente noi non lo scopriremo mai. Il primo montaggio del film durava più di 4 ore: costretto a ridurne drasticamente la lunghezza, Tarantino taglia una delle scene migliori da lui realizzate e più belle mai lette secondo Harriman (e che vedevano lo stesso attore coinvolto).

Anyway, se fate parte della cerchia ristretta di coloro che ancora non hanno visto Once upon a Time in… Hollywood affrettatevi, ma ricordatevi di non farlo lo stesso giorno in cui guarderete la 5×02 di una delle migliori serie Netflix mai realizzata.