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Con i cinema, i teatri, le sale parrocchiali, i centri sociali chiusi, il cinefilo contemporaneo italiano non se la passa benissimo. Anche se… non è detto! Quando il gioco si fa duro è sempre l’arte che ci viene in soccorso; ecco qui la nostra cura all’isolamento da quarantena: i migliori corti degli ultimi anni disponibili in chiaro online e recensiti dalla indomita redazione di AsinoVola. Questa è la prima parte, altre ne seguiranno. Buona visione e viva la resilienza, vive le cinéma!

Green Screen Gringo – Douwe Dijkstra
Visto da Elena Saltarelli

L’ultima fatica di Dijkstra lo vede turista in un contemporaneo Brasile, nascosto dietro uno schermo verde cinematografico e con l’onorevole obiettivo di documentare la vita che a quello schermo passa davanti. Il risultato è una felice commistione di eventi e di tipi umani, che evidenzia (inconsapevolmente?) il portato socio-politico e culturale e le abissali incongruenze del Paese che vivono. Un mirabile lavoro di post-produzione vuole letteralmente mischiare e decontestualizzare le realtà brasiliane, unendo un Paese che racchiude in sé divergenze estreme; GSG si giostra tra il documentario e lo sperimentale, così come tra la borghesia e le favelas, tra il profano involgarito e la storia velata di alterigia. Unisce senza toccare, lascia parlare gli altri rimanendo sul fondamentale leitmotiv shakesperiano per cui totus mundus agit istrionem.

Guaxuma – Nara Normande
Visto da Yorgos Kostianis

La sabbia è spesso percepita come metafora del passare del tempo, come in una clessidra: le sabbie del tempo scorrono tra le nostre dita come i ricordi di un tempo passato che svaniscono. Forse è stato proprio questo il ragionamento alla base della scelta di Nara Normande di utilizzarla come elemento principale per il suo film Guaxuma. Il cortometraggio ripercorre l’amicizia tra la regista e la sua amica d’infanzia Tayra, cresciute insieme sulle spiagge di Guaxuma in Brasile. Normande riesce a creare un’estetica visiva unica e coinvolgente non solo grazie alla sabbia e altri materiali, ma anche grazie a sequenze stop-motion alternate a fotografie realistiche. L’affetto per i suoi teneri ricordi che si spargono come sabbia nella brezza marina è quasi palpabile, proprio come la sua nostalgia malinconica per un’epoca passata. “Ho imparato a portare il mare in me” ammette la regista prima di chiudere il suo film con un’inquietante, ma bellissimo mormorio, ispirandosi a un malinconico verso della canzone “Do you realize” dei Flaming Lips..

Sirene – Zara Dwinger
Visto da Margherita Fontana

Sirene di Zara Dwinger descrive in modo poetico la confusione dell’adolescente Kay e l’emergere della sua coscienza femminile. In questo nord freddo e quasi surreale, il giovane Kay trascorre la sua adolescenza tra moto, fango, amici (maschi) e alcol. Questa routine poco stimolante è interrotta dall’arrivo di Melody, un’affascinante ragazza che si ferma per qualche tempo sul fiume con la sua abitazione galleggiante. La tenera amicizia stretta con la ragazza restituisce a Kay una rinnovata immagine di sé aprendo all’esplorazione della sua femminilità, almeno fino alla rottura definitiva. Con Sirene Dwinger costruisce un sogno sull’amore, l’amicizia e l’adolescenza, senza rinunciare ad un certo realismo.

All These Creatures – Charles Williams
Visto da Margherita Fontana

«No one knows for sure which part is a sickness and which part is just you. We learned about all these creatures inside us».

Tempest cerca di mettere insieme i ricordi della sua infanzia segnata dal padre affetto da malattia mentale; le immagini del passato, memorie dolorose e dettagli apparentemente insignificanti, formano un complesso mosaico che parla di quello che siamo stati e siamo adesso. Tutte queste piccole creature che abitano in noi appartengono ad una dimensione tanto fisica, quanto intellettuale: sono le molecole, le cellule, di cui siamo fatti e che “ci” fanno; ma sono anche i ricordi passati che contribuiscono a formare la nostra persona. Il corto di Charles Williams, vincitore della Palma d’Oro a Cannes 2018, è una poesia esistenziale sulle stratificazioni che formano l’io. Commovente e filosofico allo stesso tempo.

Ugly –  Nikita Diakur
Visto da Carlotta Magistris

Ugly, del russo Nikita Diakur, è una sorta di fiaba allegorica la cui trama segue il girovagare di un gatto brutto, abbandonato e alla ricerca di affetto e ripetutamente allontanato da chi incontra sul suo cammino fino a quando finalmente trova qualcuno che si prende cura di lui. La semplicità della storia si incontra con l’utilizzo che il regista fa dell’animazione, creando un universo surreale ed estremizzato, caotico e a tratti violento, in pieno contrasto con la delicatezza della vicenda, che raccontata attraverso questa estetica paradossale crea nello spettatore un curioso effetto di straniamento nei confronti della trama e un’immersione totale nell’estetica computerizzata in cui la storia prende vita.

Take me please – Oliver Hegyi
Visto da Carlotta Magistris

Animazione a tratti distopica che abbraccia il tema della solitudine dopo la fine dell’amore, Take me please indaga e rappresenta con efficaci metafore colorate e psichedeliche l’incapacità personale di un uomo di relazionarsi di nuovo alla propria emotività negli spazi di realtà che continuano a presentarsi giorno per giorno. Dal classico incontro al supermercato con lei e il nuovo ragazzo, allo sforzo di un nuovo coinvolgimento emotivo, alla sensazione di morte e a quella di rinascita, la mente viaggia su binari veloci e autodistruttivi alla ricerca di
un sollievo o una parvenza di benessere che non sembrano più fatte per attraversare la propria interiorità e portare ad un lieto fine anche solo apparente.

The Passage – Kitao Sakurai, Philip Burgers
Visto da Vanessa Mangiavacca

Phil (interpretato dal genio Philip Burger, famoso per il personaggio di Dr. Brown) è una sorta di uomo di Neanderthal, sembra essere caduto dal cielo ed approdato sulla terra per sbaglio. Bizzarre situazioni si susseguono creando una narrazione non lineare: gag clownesche a random in una versione 2.0 del cinema muto classico. Phil non parla ma comunica con il proprio corpo ed espressioni malleabili: lingue da ogni parte del mondo si alternano senza essere volutamente tradotte. Guardare The Passage è come fare zapping attraversando culture ed eventi diversi, paesaggi, sfondi e generi cinematografici differenti. È una riconciliazione gioiosa e pacifica con la diversità, un’odissea umana e autentica.