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Mentre il mondo dei cinefili si è scatenato con giudizi, controgiudizi, critiche, accuse, elogi sull’ultimo film di Nolan, anche la redazione di Asinovola non è stata da meno. Tra le nostre file si è infatti consumata una battaglia critica senza esclusione di colpi né di tecnicismi da veri film-geeks.
Certo, il mondo ha ben altri problemi ma ci è parso un bel gesto quello di rendervi partecipi della nostra piccola battaglia intestina. Ovviamente, chi volesse entrare nel cuore della disputa può commentare e alimentare il dibattito su uno dei film che, giudizi a parte, ci sta rendendo più sopportabile questo autunno anticipato.

DUNKIRK – visto da Margherita Fontana

Dunkirk è un film quasi bellissimo, il cui maggiore difetto risiede in un’incoerenza stridente tra le scelte registiche audaci e la sempreverde retorica che non avremmo voluto vedere. Il miracoloso salvataggio dell’esercito inglese dalle spiagge atlantiche di Dunkerque nel 1940 viene declinato in tre dimensioni spazio-temporali, ciascuna corrispondente a un elemento naturale (la terra, il cielo, l’acqua). Il montaggio sfaccettato delle tre trame consente di uscire dallo sviluppo narrativo che ci attenderemmo da un film di guerra tradizionale. Raccontando infatti una ritirata, non una vittoria gloriosa o una sconfitta tragica, Nolan descrive la guerra come una lotta per la sopravvivenza combattuta contro uno schieramento nemico letteralmente e moralmente invisibile. Reale e crudele come un deserto è invece l’ambiente circostante che lascia ciascuno solo di fronte al pericolo di morte. Fin qui tutto bene. I guai a mio avviso cominciano quando i personaggi smettono di lottare per la vita ed esplicitano a parole il tema centrale dell’opera, facendo riemergere una facile retorica che smorza il potenziale innovativo del film. Un film che forse avrebbe dovuto nel finale lasciarci soli sulle spiagge atlantiche, piuttosto che al sicuro, una volta tornati a casa, accolti trionfalmente in Inghilterra nonostante la sconfitta.

DUNKIRK – visto da Yorgos Kostianis

Straordinariamente coinvolgente sin dall’inizio, Dunkirk catapulta il pubblico nel caos della Seconda Guerra Mondiale. 400.000 soldati alleati, intrappolati sulla costa settentrionale della Francia, affrontano il timore disarmante delle forze tedesche che si avvicinano sempre di più. La soverchiante disperazione della posizione degli alleati è densa e palpabilmente sentita fin dalla sequenza iniziale del film. La musica di Hans Zimmer, reboante e prepotente, impartisce comandi emotivi agli spettatori, incollandoli allo schermo, mentre gli schiocchi e i sibili incessanti di ingranaggi si intrecciano al rumore delle onde frangenti, delle copiose esplosioni e dei motori chiassosi degli aeromobili.
La propensione particolare di Nolan per narrative “inventive”, che spesso si dilettano in rompicapi astuti, è messa in primo piano in Dunkirk. Il film analizza una settimana di combattimento in tre diverse sequenze temporali, divise in temi di terra, mare e aria, e dà a ciascuna di loro un arco di tempo (una settimana, un giorno e un’ora) corrispondente alla sua velocità.
Invece di limitarsi a un montaggio trasversale tra l’azione di questi tre elementi principali, il regista impiega le sue consuete bravate “anacronologiche” che contraddistinguono alcune delle sue opere precedenti come Memento e Inception. Questa struttura narrativa, inavvertitamente, inficia la validità dei pochi instanti di contatto interpersonale, come nel caso del soldato colpito da psicosi traumatica (Cillian Murphy), la cui trama è così rapidamente emarginata che a malapena raccoglie forza emotiva. Allo stesso modo, le scene della battaglia aerea — per quanto possano essere visivamente e sensorialmente affascinanti, focalizzate su un largamente sottoutilizzato Tom Hardy — minano la credibilità di un film, altrimenti, molto realistico.
In difesa del regista, la sua scelta di utilizzare questo montaggio sconclusionato, dotato di dialoghi praticamente inesistenti, mira ad accrescere il senso di disorientamento degli alleati. Nolan costringe il pubblico a mettersi nei panni infangati di questi soldati che continuano a sfuggire alle fauci della morte per il rotto della cuffia, mantenendo sempre i loro istinti di sopravvivenza.
La capacità di Nolan di estrarre note di grazia fuori dai fugaci guizzi di orrore è un testamento alla sua abilità intermittente come image-maker. Tuttavia — come con la sua recente ondata di blockbuster di successo dimostra — la sua esigente ambizione registica, in ultima analisi, risulta esteticamente e tematicamente approssimativa.

DUNKIRK – visto da Carlotta Magistris

Prendi Christopher Nolan e spoglialo da ciò che rende il suo cinema il cinema di Nolan: trame accattivanti e cariche di cliffhanger che lasciano segni che sono più domande su Yahoo answers che interiori, sceneggiature dense e a tratti telefonate, cast da incasso facile e un discreto gusto per il kitsch – per non dimenticare l’ascensore di Inception. Mantieni la passione per l’intreccio dei piani temporali e aggiungi l’innato patriottismo che caratterizza il giovane londinese e vedi Dunkirk prendere forma, la sua ultima fatica, un war movie dalla trama tendenzialmente noiosa girato con uno stile sorprendente e, sia sul piano del genere che del regista in questione, atipico: nessun eroe a cui attaccare il proprio punto di vista da spettatore, nessuno spargimento di sangue. Primi piani d’impatto dedicati per lo più al volto splendidamente inglese di Fionn Whitehead – classe 1997 – alternati a panoramiche suggestive, lunghi spazi lasciati al silenzio o alla colonna sonora, curata come sempre da Hans Zimmer, qualche nome importante fra gli attori – uno su tutti, Tom Hardy – senza essere eccessivamente incorniciato, e un finale curioso. Christopher Nolan smette i panni di enfant prodige del cinema americano, nomignolo oggi affibbiato a un giovane canadese quasi omonimo se non fosse per la prima lettera del cognome, e si avvia verso la costruzione di una personalità registica. Per ora è un lieto fine.

DUNKIRK – visto da Elena Saltarelli

Christopher Nolan, nella sua ultima fatica cinematografica, ha ritenuto necessario distaccarsi completamente dal resto della sua filmografia: con Dunkirk ci confeziona un prodotto rischioso sotto molti aspetti (primo fra tutti il tema ormai abusato della guerra) ma mediato grazie all’uso di una ricerca estetica dai tratti maniacali, resa possibile da una iperconsolidata troupe e da un budget di produzione che si attesta sui 100 mln di dollari. Ci sono tante variabili in gioco, e i rischi ne sono direttamente proporzionali: il rischio di scadere nel patriottico, nel superficiale, nel documentaristico. Nolan struttura il suo film circumnavigando tutti i cliché che potrebbero essere attribuiti a un genere come questo, regalandoci 106 minuti di una ballata dal tono lirico, che parla di violenza e di bellezza, e in cui il tema storico viene sublimato da una serie di accenti ambientali che non possono essere ignorati. Fin da subito, lo spettatore è costretto all’immersione nello sciame di giovani soldati, è costretto a provare quell’istinto basilare di sopravvivenza che non lo abbandonerà per tutto il film; una sensazione che non ha tregua, non si ferma, e fluisce con il fluire della battaglia, in cui ci si scontra con un nemico che non ha nome e che potrebbe essere chiunque. Una tragedia che, a parer mio, sarebbe dovuta essere priva di qualsivoglia dialogo di sorta: le spiegazioni utili a comprendere il dolore non possono venirci da una voce fuori campo, ma devono essere percepite a livello epidermico, attraverso il canale dello sguardo, della posa, dell’azione; attraverso anche (e soprattutto) il tentativo di elevazione di elementi naturali come il fuoco e l’acqua al rango di personaggi, o più concretamente bestie, che prendono e portano via ciò che riescono, quando riescono. Nolan aveva una grande opportunità, arrivata puntualmente a scadere sul finale, dove non è riuscito a esimersi dal dover dire ciò che ormai si era capito: lo salva solo lo sguardo finale del nostro pseudo protagonista. Uno sguardo che libera dalla morsa ottusa del patriottismo, uno sguardo incerto, che non ha bisogno di spiegazioni perché in realtà di spiegazioni non ce ne sono; che si interroga sulla propaganda dell’eroismo, quella che ha promesso tanto ma non ha mantenuto niente, e che costringe alla morte inutile, e poi all’oblio.

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