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Siamo solo a gennaio eppure “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” si presenta già come uno dei film più acclamati dell’anno (che verrà). Nato dalla caustica e arguta penna di Martin McDonagh, questa piccola e universale storia americana ha il privilegio di essere imprevedibile, di giocare con il pulp, arrivare quasi dritta alla meta e scartare all’ultimo secondo. Tutti concordi quindi nel tesserne le lodi? Non esattamente, come dimostrano le variegate opinioni della redazione di AsinoVola.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – visto da Margherita Fontana

A Ebbing, una piccola cittadina del Missouri, Mildred Hayes decide di denunciare il disinteresse della polizia per la morte della figlia attraverso tre grandi manifesti affissi lungo la strada dove la 19enne Angela è stata stuprata e assassinata. Il messaggio è diretto in primis allo sceriffo Bill Willoughby (Woody Harrelson), stimato membro della comunità e malato terminale di cancro. Il confronto tra questi due personaggi innesca il meccanismo narrativo che costruisce la trama del film, incentrato infatti sulle epopee degli abitanti di questa piccola e chiusa comunità. Nella tragicommedia ideata dal regista di Sette psicopatici tutti fanno del male a tutti: la violenza e il risentimento pervadono ogni ambito della società. Mildred, interpretata magistralmente da Frances McDormand (per questo ruolo vincitrice del Golden Globe), è il fulcro di tutte le contraddizioni che fanno il tessuto del lungometraggio: è la madre ostinata nel chiedere giustizia per la morte della figlia, ma anche l’autrice di una vendetta rabbiosa, senza smettere di essere vittima degli atti brutali dell’ex marito. Tuttavia quello che si può dire di Mildred è vero per ogni personaggio che abita l’universo narrativo di McDonagh: i preconcetti che come spettatori siamo portati a costruirci vengono puntualmente smentiti nel corso dello sviluppo della vicenda. Tre manifesti a Ebbing, Missouri è un’opera ambiziosa, in equilibrio tra comicità surreale e dramma personale, alimentata da interpreti straordinari capaci di dare corpo alla complessità esistenziale di ogni figura. Quello che più affascina di questo film è la capacità di toccare temi scottanti per l’attualità americana, senza mai cadere nella tentazione di una critica moralista. Non ci sono né buoni, né cattivi e forse per questo alla fine tutti sono salvi.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – visto da Yorgos Kostianis

“L’odio chiama odio e la rabbia genera rabbia…” questa la massima che venne in mente al regista britannico Martin McDonagh quando, 18 anni fa, solcando gli stati del sud negli USA, gli capitò di vedere un paio di manifesti con un messaggio molto rancoroso e accorato che era destinato a diventare il cardine del suo terzo film.
Un’epifania simile è venuta anche alla sua protagonista, Mildred Hayes (Frances McDormand) mentre guardava i tre manifesti dell’omonimo film sotto i quali, sette mesi prima, sua figlia Angela era stata violentata, uccisa e bruciata. Poche attrici riuscirebbero a rendere in un’unica maschera il misto di desolazione, rimorso, rancore e iracondia che contraddistingue questo personaggio. Scavata da questi sentimenti divoranti, Mildred decide di noleggiare questi tre cartelloni pubblicitari per descrivere nel primo l’omicidio efferato, castigare nel secondo l’inettitudine della polizia a consegnarle il colpevole e nel terzo denunciare lo sceriffo di Ebbing. Ma questa sua “campagna”, la quale inizialmente sembrava un punto di svolta, in realtà, non è che solo l’inizio di una spirale discendente in procinto di precipitare Mildred e i suoi compaesani in un caos violento e vendicativo. Nonostante la trama sia dipinta con fosche tinte, McDonagh come evidenzia la sua breve filmografia (In Bruges, Seven Psychopaths), è soprattuto un brillante commediografo. Con un cast stellare e una sceneggiatura magistralmente scritta, il film riga dritto in un mondo di sfumature sottili tra giustizia, vendetta, bifolchismo e redenzione, armato sempre di una affilatissima linea comica.
Così come nel libro di Flannery O’Connor che, non a caso, appare in una delle prime scene del film, il regista dipinge il Missouri come una sorta di purgatorio, dove nessuno viene risparmiato e nessuno rimane illeso. A McDonagh non piacciono le risposte facili; perciò attraverso le azioni indifendibili dei suoi personaggi rende sempre più difficile per lo spettatore scegliere da che parte stare, fino al finale “aperto”. Tuttavia, questa sua fissazione con la neutralità morale rende la sua opera parzialmente inverosimile e il suo utilizzo della violenza come strumento narrativo risulta vagamente gratuito. A differenza di O’Connor oppure dei fratelli Coen, dai quali nettamente trae ispirazione, casca nella trappola di proteggere i suoi personaggi, abilmente scolpiti, seppur azzerando in quel modo le conseguenze delle loro scelte. Nella stessa ottica, la sua sceneggiatura tende a dominare e forse, in parte, soffocare, il resto degli aspetti cinematografici, come la buona scenografia, ma nel complesso approssimativa. Ciò nondimeno, la terza opera di McDonagh cerca di espandersi verso territori precedentemente inesplorati e mentre il suo equilibrio tra commedia e drammaturgia, sceneggiatura e scenografia rimane ancora lievemente pericolante, la sua capacità registica è indubbiamente lampante.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – visto da Carlotta Magistris

Frances McDormand, ad oggi forse la più grandiosa attrice americana vivente, Woody Harrelson sempre d’impatto, un Sam Rockwell da lacrima facile: Martin McDonaugh, regista con alle spalle una filmografia non brillante, servendosi di uno dei cast migliori che si possano desiderare attualmente nel cinema americano, crea e sceneggia con sagacia un film dalle forti tinte Coeniane che viene forse con troppa facilità considerato una delle pellicole più interessanti uscite in sala nell’ultimo periodo. A renderlo tale un impeccabile ed incalzante intreccio narrativo dove tutto è al posto giusto, che non si esime da qualche riflessione etica toccata piano andando a concludersi in un finale non banale ma forse eccessivamente aperto; nel complesso ne esce un film da vedere, con cui empatizzare ed essere intrattenuti ad un livello sopra la media ma non davvero capace di sorprendere ed essere annoverabile in quello che a oggi è considerato – e considerabile – cinema d’autore.

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – visto da Elena Saltarelli

È difficile recensire questo film. Inquadrarlo in un genere stretto significherebbe recluderlo in una gamma emozionale univoca, e ciò è tutto quello che Tre manifesti non è.
Terzo film diretto da Martin McDonagh, il centro focale si rivela essere una straordinaria Frances McDormand, candidata ai Golden Globe come migliore attrice. Madre divorziata e provata dall’omicidio a sfondo sessuale della figlia adolescente, Frances/Mildred paga un’agenzia pubblicitaria per scrivere su tre cartelloni delle frasi provocatorie indirizzate alla polizia, a suo dire colpevole di non aver fatto abbastanza per la cattura dello stupratore assassino. In questo clima, il dramma si mescola sapientemente a dialoghi da commedia noir che non risparmiano nessuno, non essendo mai volgari agli occhi dello spettatore consapevole.
L’eleganza che corre sul filo dell’angoscia, tra poliziotti redneck e dolcissimi benché violenti; sullo sfondo, il dito giudicante della comunità americana a cui una donna ha osato dichiarare battaglia. Siamo davvero capaci di tracciare linee nette tra la bontà e la malvagità umana? Siamo capaci di ridere e poi piangere per un episodio soltanto? McDonagh ci dimostra che i contrasti, quando ben strutturati, sono ciò di cui l’arte si compone e che la perfezione annoia. Sta a noi accettarlo, se abbiamo voglia di guardare davvero.

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