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a cura di Isabella Carini e Virginia Carolfi

Il linguaggio è una delle più straordinarie caratteristiche umane. Da sempre esso ci affascina per la capacità che le parole hanno di racchiudere in sé immagini e significati enormi, culture e universi interi.

Da sempre ci affascina anche la mutevolezza del linguaggio umano: la varietà di lingue e dialetti parlate nel mondo e le barriere che questa varietà pone ci ricordano il delicato compito dei traduttori, costruttori di ponti tra una lingua e l’altra, e ci portano a domandarci perché esistano così tante lingue. Una risposta affascinante viene dal mito della Torre di Babele, che narra di un tempo in cui gli uomini parlavano una sola lingua e, forti del potere collettivo di questa lingua comune che permetteva a tutti di comunicare con tutti, poterono unire gli sforzi e costruire una torre talmente alta da sfiorare il paradiso, suscitando in Dio timore e rabbia. Fu dunque Dio a punire gli uomini per la loro audacia, privandoli della loro lingua comune e dando loro migliaia di lingue diverse.

Il titolo di questo focus dedicato al linguaggio umano nella sua mutevolezza è After Babel, in omaggio al mito e all’opera di George Steiner, dalla quale emerge un’altra affascinante ipotesi: che la diversità linguistica sia una volontà umana, nata dal profondo desiderio umano di segretezza e territorialità. Ed è proprio sull’aspetto umano del linguaggio e delle lingue che questi cortometraggi ci fanno riflettere. Come Denis Villeneuve sembra dirci in Arrival (2016), il linguaggio influenza ogni aspetto della nostra vita, mentale e fisica, forse anche la nostra percezione.

Questo è il fil rouge dei film che abbiamo selezionato, declinato nella solitudine che nasce dalle barriere linguistiche, nelle lingue dimenticate o da salvare, nei lessici familiari, negli aspetti cognitivi del linguaggio, nei risvolti più insoliti o grotteschi e, infine, negli effetti che le lingue che abitiamo hanno sulla nostra stessa identità.

I film selezionati 

a cura di Isabella Carini e Virginia Carolfi

A Woman like me, Isabel Lilia Morales Bondy, USA, 2017,
Agua viva, Alexa Lim Haas, USA, 2018
Can you read my lips?, David Terry Fine, USA, 2015
Chuchotage, Barnabás Tóth, Ungheria, 2018
Legacy, Daniel Kazankov, Slovacchia, 2019
Marie’s Dictionary, Emmanuel Vaughan-Lee, USA, 2015
Putting on the dish, Karl Eccleston & Brian Fairbairn, UK, 2015
Shn(y)oof, Sam Davis & Rayka Zehtabchi, USA, 2019
The silent child, Chris Overton, UK, 2017

A WOMAN LIKE ME – visto da Virginia Carolfi

Ci sono due livelli per leggere questo densissimo corto; il primo è la storia che ci viene raccontata. Dorte, una donna sordocieca danese, si reca in Nepal per incontrare Budhi, donna che vive nelle stesse condizioni di sordocecità. Il secondo filone, ben più complesso, è proprio una riflessione su queste “stesse condizioni”: Dorte ha incontrato mille difficoltà ma ha anche avuto accesso a istruzione, arte, cultura, internet, mezzi di comunicazione. Come lei stessa racconta nel film, Budhi non ha avuto la stessa fortuna: nessuno le ha insegnato a leggere, a scrivere, non può ricorrere a Internet per informarsi o per svagarsi, o per scoprire qualcosa di nuovo. Ma come sta Budhi? Nell’ultimo frame ci appare felice, serena, circondata da nipotini assortiti, lasciandoci un dubbio (ricordando che fortuna in latino è una vox media): quale tra le due donne è davvero più fortunata? E tra le mani che si toccano, i suoni che si scambiano, sono due i mondi che vengono a contatto, e il ponte che viene creato è ancora più vertiginoso e fragile.

AGUA VIVA – visto da Virginia Carolfi

Agua viva è un’animazione leggera leggera come una medusa estiva, che in poco più di 6 minuti sfiora così tanti temi che si potrebbe scrivere un articolo per ognuno di essi. Mei Mei e un’estetista cinese catapultata negli USA in uno dei mille centri estetici low budget che è molto comune trovare anche in Italia; il suo lavoro la porta ad avere un contatto diretto, molto intimo, con le persone (manicure, cerette all’inguine, strappo dei baffetti e altre amenità). Tuttavia, questa vicinanza è puramente fisica; la barriera linguistica, l’isolamento, le lunghe ore di lavoro ripetitivo non permettono alcun vero scambio umano, è Mei Mei stessa che accende il ventilatore così da avere un rumore di sottofondo abbastanza forte da scoraggiare il dialogo. Non c’è però rabbia o irritazione in questo racconto, i colori acquerellati dell’animazione ci portano piuttosto in una dimensione fluida, in cui le parole semplici di Mei Mei – che potrebbero essere quelle di una storia Instagram o di un post – si intrecciano ai suoi pensieri più complessi e fluttuano, come un enigma, verso di noi.

CAN YOU READ MY LIPS? – visto da Isabella Carini

Come ci si sente a vivere in una realtà dove tutto è progettato da e per udenti, dovendo cogliere con la vista informazioni che nascono per essere ascoltate? Questa è la provocazione lanciata da Rachel Kolb e David Terry Fine, che costruiscono per un assaggio immersivo dell’esperienza della sordità in un mondo udente. E se la lingua dei segni apre le porte a un mondo diverso, quello dei sordi segnanti, dalla cultura ricca e complessa, la protagonista afferma il suo desiderio di appartenere a entrambi. Un film pungente e colorato sul confine tra questi due mondi.

CHUCHOTAGE – visto da Isabella Carini

A Praga, una noiosa conferenza sull’efficienza energetica prende vita quando due interpreti di ungherese iniziano a sfidarsi per uscire dall’ombra in cui sono relegati dal loro mestiere. Una commedia vivace su una figura spesso dimenticata: l’interprete, che costruisce ponti tra lingue e culture e funge da guida nella babele moderna, ma il suo destino è rimanere invisibile. E se un giorno invece prendesse la parola?

LEGACY – visto da Isabella Carini

Igor è russo, vive da solo in Slovacchia col suo cane Saša. Prima di morire, tenta di lasciare le sue ultime volontà, ma sul suo cammino non incontra nessuno disposto ad accogliere il suo messaggio, né la sua lingua. Corto polifonico e amaro, in cui lingua russa e lingua slovacca si intrecciano senza mai creare un vero dialogo, ma piuttosto tracciano un confine invalicabile tra le due culture, fatto di antiche ferite e contraddizioni risalenti al periodo dell’URSS.

MARIE’S DICTIONARY – visto da Virginia Carolfi

Marie Wilcox è l’ultima madrelingua Wukchumni, l’ultima persona in grado di parlare questa lingua appartenente a una tribù della California centrale, i Wukchumni appunto, parte di un gruppo di nativi più ampio denominato Yokuts.

Con una semplicità disarmante Marie racconta la sua “grande impresa”, la costruzione di un dizionario (i primi lemmi li scriveva sul retro di buste e lettere) che diventa il simbolo di una identità culturale quasi svanita e perduta. Come chi ha visto La memoria dell’acqua ricorderà, una lingua non è solo lemmi, fonemi e grammatica, è identità e quindi dignità, punto di appiglio di fronte allo smarrimento che – ahinoi – attende dietro l’angolo l’essere umano contemporaneo. I Wukchumni oggi sono poco più di 200 ma pian piano, grazie al dizionario di Marie, stanno recuperando la loro lingua e il dialogo con un passato che diventa la chiave per radicarsi in modo consapevole nel presente.

PUTTING ON THE DISH – visto da Isabella Carini

Due uomini condividono una panchina in un parco. Da una battuta criptica inizia un dialogo appassionato che sfocia in un’ondata di confessioni e pettegolezzi, fino a un epilogo inaspettato. Un bianco e nero essenziale, senza musica, in cui il protagonista assoluto è il Polari, lingua segreta con cui la comunità queer britannica si riconosceva e si proteggeva, quando l’omosessualità era reato. Brian Fairbairn e Karl Eccleston evocano un’atmosfera assai diversa dalla narrazione usuale della Londra anni ‘60: qui domina il sospetto, l’annusarsi reciprocamente. La spensieratezza e gli eccessi della Swinging London sono solo nei racconti di fatti avvenuti a porte chiuse, che prendono vita, nei 6 minuti del film, attraverso il dialogo piccante in una lingua oggi scomparsa.

SHN(Y)OOF – visto da Virginia Carolfi

SPOILER ALERT!

Se avete amato Lessico famigliare della Ginzburg non potrete non commuovervi di fronte alla delicatezza di Shn(y)oof, piccolo gioiello che ci porta nelle vite di Tonya e Bill, due coniugi di mezza età che pian piano, negli anni, hanno costruito un linguaggio unico e comprensibile solo da loro, un codice che li rende uniti ma che al tempo stesso li separa dal mondo reale. Bellissimo… peccato sia un fake. Trattasi infatti di un mockumentary perfettamente girato da Sam Davis e Rayka Zehtabchi; passato il primo momento di comprensibile irritazione, non si può non ammirare l’idea e la magistrale realizzazione di questo progetto, tanto più se guardiamo al background di Zehtabchi, la cui famiglia emigrò negli USA dall’Iran negli anni ‘90. Una vicenda che senza dubbio ha contribuito alla spiccata sensibilità della regista per il linguaggio e la sua importanza in un contesto domestico-familiare in opposizione dialettica a ciò che sta fuori.

THE SILENT CHILD – visto da Isabella Carini

Libby è una bambina che vive in un mondo silenzioso, in una famiglia che invece abita un mondo di suoni. Sarà l’incontro con Joanne, un’educatrice segnante, a farle conoscere la lingua dei segni e a farle scoprire la gioia dell’interazione con gli altri. Il film, vincitore del premio oscar nel 2018, offre uno sguardo profondamente umano sul percorso che una famiglia compie mentre impara a rapportarsi con la sordità, e punta a sensibilizzare sull’importanza dell’inclusione attraverso strumenti specifici: le persone sorde possono fare tutto, tranne sentire.

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