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Improvvisamente diventato il “cocco d’Italia”, il buon Guadagnino (fino a ieri la reazione più comune era “Guadagnino chi???”) ci regala un film che sa toccare le corde giuste e restare a lungo negli occhi dello spettatore. Forse il pregio maggiore di “Call me by your name” è quello di mantenere una leggerezza invidiabile, frutto anche della sempre lieve sceneggiatura di James Ivory, e di trasformare Crema (Crema!) in un paradiso terrestre, un buen retiro neoclassico che non ha nulla da invidiare alla ben più blasonata campagna toscana. Per questo, dal nostro cuore di grigi abitanti della pianura padana, va un sentito grazie al palermitano Guadagnino che ritrae la campagna afosa delle lunghe estati padane come fosse l’Arcadia.
Parte della redazione di Asinovola si è cimentato con la recensione del film più chiacchierato d’Italia come sempre le opinioni sono variegate e, come da tradizione, pure un po’ ciniche.

Call me by your name – visto da Margherita Fontana

Elio Perlman (Timothée Chalamet) è un precoce 17enne che trascorre le sue estati nella villa ereditata dalla madre “da qualche parte nel nord Italia”, trascrivendo musica e suonando il piano. L’incontro con lo studente americano 24enne Oliver (Armie Hammer), che soggiorna presso la famiglia per completare la sua tesi di dottorato insieme al padre di Elio, archeologo di fama, cambierà per sempre la sua vita. Luca Guadagnino ci mostra senza malizia gli istanti nascenti della storia d’amore che accompagnerà i due in quell’estate italiana del 1983. Non a caso il regista parla della sua opera come di un film disneyano: la vicenda amorosa del giovane Elio si svolge nel confronto con una famiglia che accetta quanto sta accadendo e che incoraggia il giovane a esplorare le sue emozioni. Il padre soprattutto, interlocutore sia di Oliver che di Elio, sembra fornire la cornice concettuale in cui inquadrare lo sbocciare di questo amore. Di mestiere archeologo, ha educato il figlio all’amore per la bellezza, al punto che potremmo dire che la grazia e la sensualità delle sculture di Prassitele è la stessa che Oliver e Elio cercano l’uno dell’altro. Persino la tanto chiacchierata scena della pesca (lascio al lettore che non avesse visto il film il piacere di scoprire di che cosa si tratta) è coerente con l’omaggio all’estetica classicista che questo film proclama: bellezza, sensualità e natura unite in un ideale di perfezione.

Call me by your name – visto da Carlotta Magistris

Con alle spalle una filmografia trascurabile, Luca Guadagnino arriva al suo quinto lungometraggio con Call me by your name, quello che egli considera la conclusione della cosiddetta trilogia del desiderio, composta dagli ultimi suoi tre film, tutti interpretati da attori stranieri più o meno noti. Un film a cui si deve prima di qualsiasi analisi il merito di aver creato file fuori dalle sale cinematografiche per un’opera italiana, fomentato sicuramente dalle spinte mediatiche ma anche da una sana curiosità verso il cinema che si sta timidamente riaffacciando. Con tutto il peso dell’aspettativa, il film emoziona e non delude il pubblico: complici evidenti riferimenti contemporanei che da tempo ricategorizzano il concetto di bello, come la passione estetica e temporale per il vintage e una colonna sonora atmosferica e relativamente ricercata, che uniti alla tematica, di tendenza ma toccata con classe, dell’omosessualità danno più di una strizzata d’occhio a quello che è uno degli autori più in voga del cinema contemporaneo, Xavier Dolan. Un’opera d’impatto che non fa promesse su una eventuale evoluzione autoriale del proprio regista ma che ci piace e piacerà soprattutto all’estero, dove attendono trepidanti altre modalità rappresentative di quello che è definibile un Italian dream dai tempi della Grande Bellezza.

Call me by your name – visto da Elena Saltarelli

Call me by your name, diretto da Luca Guadagnino, è un film del 2017 tratto dall’omonimo romanzo di André Aciman. Ha ottenuto nel complesso tre candidature per i Golden Globe e quattro per gli Oscar, e benché in Italia sia stato distribuito con vergognoso ritardo rispetto a Stati Uniti e Inghilterra, si può ritenere un gioiello bucolico italiano, di produzione franco-americana. Quella ritratta è la campagna cremasca della prima metà degli anni ’80, vista dall’adolescente Elio Perlman, che sotto le musiche eteree e delicate di Sufjan Stevens conoscerà un sentimento, finora inespresso, per lo studente che è venuto a studiare alla tesi da suo padre, ovvero l’americano Oliver. Tra tuffi al fiume, spremute di albicocca e trascrizioni musicali i due si attraggono e si respingono, fino ad aversi pochi giorni prima della partenza di Oliver. In questo film viene descritto l’amore post-adolescenziale in un contesto privilegiato e romantico, senza la proliferazione retorica del rapporto omosessuale; un film che profuma di frutti estivi, in cui il dolore e l’abbandono si intrecciano alla felicità di aver trovato l’altro, ma soprattutto di aver scoperto sé stessi. Un film che tocca tante corde emozionali, ma che non stride mai; l’azione viene vissuta come in un ricordo, in cui il contesto dove si svolge la trama è importante quanto la trama stessa. Lascia un accenno di nostalgia e un sapore dolce, che ci ricorda quanto è triste e bello, a volte, lasciarsi andare al ricordo di cose passate, e vederle più belle di quanto siano state realmente.