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A quattro anni da Grand Budapest Hotel, Wes Anderson ci riporta nel buio della sala cinematografica con la sua seconda pellicola di animazione, che fa il paio con l’indimenticato e indimenticabile Fantastic Mr Fox. Regno animale e regno degli uomini ancora contrapposti in un tripudio di simmetrie, simboli e architetture cyber punk, un mondo che si sposa perfettamente con la (adorata) maniacalità del regista texano.
Asinovola si getta nella mischia delle recensioni grazie a Margherita Fontana, Carlotta Magistris ed Elena Saltarelli.

Isle of Dogs – visto da Margherita Fontana

Isle of Dogs di Wes Anderson non è certo un “film per bambini”, ma bensì una raffinata distopia, ironica quanto crudele. Con il suo secondo film d’animazione il regista texano racconta la violenza cruda nascosta “in bella vista” in ogni ambito della società, nei discorsi del potere come nella preparazione del sushi (vedere per credere). Nell’universo distopico immaginato da Wes Anderson, il civile Giappone è retto da una dittatura che controlla le masse attraverso la manipolazione della verità (scientifica) e che ha confinato i cani, ex migliori amici dell’uomo, su Trash Island, isola discarica. Tuttavia proprio qui, dove dovrebbero regnare solo il caos e la legge del più forte, si assiste alla creazione di un ordine alternativo, imperfetto ma democratico. A questa trama politica si intreccia quella sentimentale sul significato dell’essere randagi e di avere un padrone: essere “domestici” non significa essere sottomessi, ma avere una casa. Randagio è Chief, il capobanda del branco di cani protagonisti, ma lo è anche il piccolo pilota Atari, rimasto orfano e lasciato solo da una società che lo vorrebbe insensibile ai legami affettivi. Wes Anderson ci racconta tutto questo con la consueta fantasia e ironia, attraverso una felice formulazione del suo linguaggio visivo: geometria sintetica, simmetria, cromatismo simbolico (bianco, rosso e nero per la megalopoli nipponica, sui toni sfumati del marrone per l’isola dei cani). Irresistibile la colonna sonora, un flusso continuo di percussioni che ritma il viaggio dei protagonisti.

Isle of Dogs – visto da Carlotta Magistris

Andare in sala a vedere il nuovo film di Wes Anderson, nel 2018, è una garanzia; una garanzia di avere di fronte una pellicola di livello, con un meticoloso lavoro registico ed estetico e anche una garanzia su un inconfondibile piano emotivo, naif ed agrodolce, che è sempre rimasto più o meno costante, nel corso degli anni, di pellicola in pellicola. Otto anni dopo il suo primo film in stop-motion, il regista statunitense al suo nono lavoro torna all’animazione con un’opera che ricalca a pieno gli stilemi registici a cui siamo abituati e forse, complice un nuovo e spiccato postmodernismo, la solita impeccabile colonna sonora. Inoltre, in questo caso, una fine ed efficace riflessione sociale alza l’asticella dandoci anche qualcosa in più. La storia, ambientata in Giappone in una sorta di futuro distopico, segue il pattern piuttosto classico di una potenza tirannica che attraverso la diffusione capillare nella popolazione del terrore ghettizza una minoranza che sofferentemente cerca di ritrovare un posto nel proprio mondo. Con cani parlanti ed esseri umani che parlano giapponese, volutamente non comprensibili, adolescenti speciali e piccole e agrodolci storie d’amore, Wes Anderson addolcisce la pillola di una pellicola con un nuovo e maggiore spessore narrativo, in una cornice estetica sempre più d’impatto per un film che sembra indirizzare la poetica andersoniana, nella sua dolcezza mai banale, a trovare la propria condizione più efficace nell’animazione.

Isle of Dogs – visto da Elena Saltarelli

L’ultima opera di quel genio dandy di Wes Anderson ha un nome, Isle of Dogs, ed è un film d’animazione realizzato interamente in stop-motion.
Le soluzioni adottate da Anderson per questo film sono straordinariamente innovative, crude, divertenti e contemporaneamente malinconiche; restituiscono un’opera la cui cifra stilistica raggiunge vette talmente alte da far risultare il film una ballata, il cui contrappeso contenutistico si rivela nella metafora politica che sottende a tutta la narrazione.
Una ballata politica, quindi, in cui gli elementi chiave sono il ritmo, il linguaggio e l’immagine.
Il ritmo è definito dalla assoluta capacità del film di far coincidere il comparto sonoro con il taglio delle scene, rese con la definizione visiva di un quadro, e con la coordinazione dinamica del dialogo tra pieni e vuoti, nei silenzi e nelle parole perfettamente calibrati, che restituiscono un’opera dinamica e che cattura l’attenzione dello spettatore. La soluzione adottata per il linguaggio è a mio parere la vera chiave di volta: gli umani parlano un giapponese non sottotitolato né tradotto, abbozzato e incomprensibile, che ci viene reso attraverso traduzioni simultanee e interpretazioni dei cani; il gap linguistico che separa il mondo umano da quello canino, che comprende solo le parole “biscotto” e “ seduto”, si traduce nel mancato sforzo che le persone fanno per comprendere chi si esprime in modo diverso dal loro.
L’immagine riprende e mescola la tradizionale pittura giapponese (come quella di Shoko Okumura) con la iper-tecnologica sottocultura del manga cyberpunk, restituendo un’opera non collocabile temporalmente.
Concludendo, trovo l’ultima fatica del regista di Moonrise Kingdom necessaria, nell’hic et nunc del nostro tempo.