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a cura di Chiara Ghidelli e Chiara Granata | recensioni di Chiara Ghidelli

Definito come “pratica di riuso di materiali preesistenti che, tramite montaggio, sia atto a comporre un risultato di volta in volta astratto, ironico, politico, controinformativo” il found footage sembra vivere oggi una nuova primavera. Reduce da grandi successi cinematografici e televisivi, tanto commerciali quanto autoriali, il materiale d’archivio esce finalmente dal pregiudizio che lo relega a narrazioni prettamente documentaristiche e di nicchia, avventurandosi nei territori della fiction, del videoclip e del mainstream. In un’epoca fatta di ossessioni per il vintage, fake news e overdose di immagini, il riuso d’archivio trova una validazione e un’attenzione che non aveva mai trovato in precedenza.

Per la sua 22° edizione, Concorto Film Festival sceglie allora di dedicare uno spazio a questi nuovi linguaggi attraverso Mnemosyne. Riprendendo il titolo dell’opera con la quale Warburg ha dimostrato quanto la nostra cultura visuale sia stata attraversata da immagini che ritornano, il focus si pone l’obiettivo di indagare e dimostrare pratiche ed estetiche del found footage nel mondo contemporaneo. Attraverso fiction, documentari, linguaggi sperimentali e videoclip, Mnemosyne racconta allora una nuova tendenza, restituendo all’archivio gli spazi che per anni non ha potuto esplorare.

I film selezionati 

a cura di Chiara Ghidelli e Chiara Granata

Condition D’élèvation (State of Elevation), Isabelle Prim, 2021, Francia
Dima, Dmitry, Dmytro. Glory to the heroes, Clemens Poole, 2022, Ucraina
Home When You Return, Carl Elsaesser, 2021, USA
La Hija de la Azafata (The Stewardess’ Daughter), Sofía Brihet, 2022, Argentina
Long time no techno, Eugenia Bakurin, 2022, Germania
Majmouan (Subtotals), Mohammadreza Farzad, 2022, Polonia/Germania/Iran
Mary, Mary, So Contrary, Nelson Yeo, 2019, Singapore
Persiamia, Stefano P. Testa, 2017, Italia
White Afro, Akosua Adoma Owusu, 2019, Ghana

Condition D’élèvation (State of Elevation), Isabelle Prim, 2021, Francia, 20’

In un luogo indefinito sorge quello che sembra essere un centro per gli studi spaziali. Alcuni uomini discutono mentre, poco lontano, procedono i preparativi di un’insolita partenza. Protagonista della storia, una giovane ragazza con un grande segreto: un misterioso incontro avvenuto in un altrettanto indefinito e misterioso luogo dello spazio. Video di repertorio e fotografie si intrecciano a voci e suoni per costruire la narrazione di un ricordo di cui nessuno, se non gli occhi della giovane, ha visto nulla ma che sembra contenere una verità tanto fondamentale quanto urgente. Nel tentativo di raccontare un evento inafferrabile e impossibile da visualizzare, Isabelle Prim restituisce nuova vita agli archivi del Centre National d’études spatiales, giocando nel territorio della fiction senza mai tradire la veridicità e la validità delle immagini del reale. Alla ricerca di nuovi strati di connessioni e significati, Condition D’élèvation riesce nella complessa operazione della costruzione di immaginari inediti, permettendo al repertorio di esplorare nuovi spazi, lontani da sé stesso. 

Dima, Dmitry, Dmytro. Glory to the heroes, Clemens Poole, 2022, Ucraina, 24’

Lugansk, Ucraina. È il 1995 e un bambino gioca per le strade nei ricordi in un filmino di famiglia. Attraverso l’estetica dell’immagine privata di repertorio, Clemens Poole mescola e indaga la vecchia e la nuova storia. “Questo è il mio film, anche se non l’ho girato né scritto io”, dice l’artista americano, dando vita ad una narrazione metalinguistica in grado di riflettere su sé stessa e sul suo ruolo identitario e storiografico, stressando gli archivi, interrogandoli e chiedendo loro sempre di più. Il bambino, protagonista ed eroe di questa storia, parla in prima persona di qualcuno che tuttavia non è sé stesso. Elevando la vicenda privata ad una dimensione universale Dima, Dmitry, Dmytro. Glory to the heroes riflette per immagini la vecchia e la nuova Ucraina alla ricerca di eroi della piccola e grande storia. 


Home When You Return, Carl Elsaesser, 2021, USA, 30’

Tra i luoghi per eccellenza della memoria, della conservazione dei ricordi e della formazione di identità, la casa è tra i più raccontati e stratificati. Attraverso l’ibridazione di immagini, punti di vista e materiali audiovisivi di varia natura, Home When You Return entra a far parte di questo filone dando vita a un melodramma sperimentale. Nato dall’unione dei film di J.T. Baldwin degli anni ’50, riprese ex novo e animazioni dall’estetica fortemente sperimentale e artigianale, Carl Elsaesser compone un racconto al femminile, capace di attraversare la storia di tre donne tramite le loro assenze all’interno di un luogo così presente e invadente come quello della casa. Ritratto di una cineasta, di una nonna e di una madre, le immagini ne raccontano complessità, vicinanza e soprattutto l’inafferrabilità. Il tutto, grazie ad una manipolazione significativa dell’immagine capace di metterne in discussione il valore testimoniale, in virtù della creazione di nuove letture del passato e delle identità di persone conosciute e sconosciute. Un racconto sull’impossibilità di catturare, sulla sedimentazione di un ricordo fantasma, sulle tracce e sui vuoti che esso lascia. Un racconto di assenza e di vita.


La Hija de la Azafata (The Stewardess’ Daughter), Sofía Brihet, 2022, Argentina, 8’

Una vecchia pubblicità di un alcolico risuona come un motivo lontano nel tempo ma familiare. Al suo interno, con una disarmante casualità, Sofia Brihet vi riconosce l’altrettanto familiare volto della madre. Lo straniante atto di riconoscimento di una versione della donna che la regista non ha mai potuto esperire, dà il via ad un flusso di coscienza, un’analisi identitaria e di genere capace di raggiungere eco universale. Un ritratto frutto di un’interrogazione insistente e ripetuta dei repertori che si fondono tra loro in un passato fumoso fatto di immagini private e pubbliche, accostate quasi a volerne trovare le differenze. Attraverso iterazioni, ripetizioni e voice over, La Hija de la Azafata racconta lo sguardo di una figlia nell’atto di riconoscere sé stessa attraverso l’immagine di una donna così vicina e allo stesso tempo così lontana. Una riflessione sulla potenza degli archivi e delle immagini del passato, sul loro potere empatico di farsi riconoscere come attivatori di memorie tanto estranee quanto familiari. 


Long time no techno, Eugenia Bakurin, 2022, Germania, 4’

L’Odesa Film Studio è stato uno dei primi studi cinematografici dell’ex Unione Sovietica. Al suo interno risiede un patrimonio audiovisivo supervisionato dal Dipartimento del fondo di proprietà statale dell’Ucraina, insieme al Ministero della Cultura e, come molte altre istituzioni, la sua tutela è ad oggi minacciata dall’esercito russo. Con un attico politico e poetico, Eugenia Bakurin ne recupera alcuni frammenti, componendo un collage di corpi in movimento che raccontano una libertà di azione e di espressione. Creato dall’unione di scene tratte da film per bambini degli anni ’70 e ’80, Long time no techno riporta al presente le immagini di viaggi, avventure e sogni che hanno plasmato intere generazioni. Sulle note di una musica techno sperimentale e vitalizzante che trasporta in una fruizione libera come quella di un videoclip, il racconto si fa veicolo di un flusso di immagini di un’infanzia perduta e portavoce di due Paesi. 


Majmouan (Subtotals), Mohammadreza Farzad, 2022, Polonia/Germania/Iran, 15’

I baci dati. Quelli ricevuti. Le case in cui si è vissuto. Fratelli avuti. Figli. Risate genuine. Volte in cui si è nati. Volte in cui si è morti. Sono solo alcuni dei numeri raccolti in Majmouan, racconto di una vita e antologia di esperienze. Ispirato all’omonimo racconto di Gregory Burnham e al testo Autoritratto di Édouard Levé, l’opera assembla alcuni home movies iraniani girati in 8mm di situazioni comuni e familiari, strutturando una narrazione psichica e sofferta di un protagonista senza nome che si ritrova a fare il punto del suo vissuto. Un racconto a tappe enunciate da un voice over proveniente da un non-luogo e un non-tempo e che di vite sembra averne vissute molteplici. Una poesia scandita in numeri, un catalogo di memorie capaci di restituire la complessità di un intero paesaggio interiore. 


Mary, Mary, So Contrary, Nelson Yeo, 2019, Singapore, 15’

Ma Li è una donna cinese data in moglie ad uno stalliere. Fin dalla prima notte di nozze, i suoi sogni non le danno pace. Sogna infatti spesso di essere una donna caucasica di nome Mary. Attraverso l’esplorazione del suo subconscio, Ma Li attraverserà una brutta crisi. Realizzato dall’unione e il riutilizzo di due film classici e del girato del regista, Mary, Mary, So Contrary costruisce una favola nera dai toni inquietanti e onirici, all’interno della quale orientarsi diventa sempre più difficile, tanto per lo spettatore quanto per Ma Li. Un viaggio nella mente di una donna diventata moglie che si trova a fare i conti con una nuova versione di sé così simile e allo stesso tempo così irriconoscibile. L’opera di Nelson Yeo racconta quanto il potenziale del found footage, se interrogato, possa contenere infinite storie e infiniti mondi. 


Persiamia, Stefano P. Testa, 2017, Italia, 5’

Realizzato per il brano dei Chicken Bushido, Persiamia raccoglie materiali provenienti dall’archivio bergamasco Cinescatti, nato da un progetto di Lab80 volto alla valorizzazione dei film di famiglia e amatoriali. Una narrazione che trasporta in un immaginario che ha del magico, ovvero quello del circo, ma che svela presto lati oscuri esposti alla luce del sole. Attraverso il linguaggio del videoclip, Stefano P. Testa assembla una narrazione dalla forte connotazione politica e autoriale, ricreando un mondo apparentemente favolistico ma crudelmente reale. Un microcosmo che affianca un brano senza voce in un’operazione di reciproco rafforzamento e accompagnamento verso un mondo illeggibile nella sua impossibilità di distinguere realtà da fantasia, vittime da tiranni. Un mondo che è esattamente fatto come il nostro.    


White Afro, Akosua Adoma Owusu, 2019, Ghana, 6’

Un video tutorial istituzionale su come realizzare l’acconciatura afro si fonde con la testimonianza di una donna – la madre della regista – ex dipendente di un salone di parrucchieri in cui questa moda stava spopolando. Ritratto di un’epoca controversa di cambiamenti e atti politici, White Afro diventa un racconto senza tempo, in grado di rappresentare politica e ipocrisia della natura umana. Giocando con le possibilità della pellicola, virandola e modificando la percezione e il contenuto, l’opera di Akosua Adoma Owusu diventa una narrazione intorno al tema della bellezza, dei canoni che essa porta con sè, della loro volubilità nel tempo e nello spazio, dimostrando che tutto, in un modo o nell’altro, è anche una scelta politica.

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