Direttamente dalla nostra inviata per i grandi cult che fanno l’occhiolino agli anni ’80, la recensione di “Ready Player One” di Steven Spielberg a cura di Margherita Fontana.
Dopo la missione come inviata alla visione del film-evento diretto e “interpretato” da Prince, la redazione di AsinoVola mi ha incaricato di recensire l’ultimo film del buon Steven Spielberg. O meglio, il trailer di Ready Player One, con tanto di riff di tastiera di Jump dei Van Halen, mi ha praticamente trascinato al cinema. Ecco un breve resoconto di quest’esperienza di puro intrattenimento.
Ready Player One – visto da Margherita Fontana
Attenzione contiene SPOILER.
Siamo a Columbus, Ohio, nel 2045. Come al solito, guerra, carestia, cavallette, crisi dei valori hanno trasformato l’America in un luogo inospitale. Wade Watts, il nostro protagonista, è orfano e vive con gli zii in una baraccopoli alla periferia della città. Per rendere tollerabile ciò che resta del mondo vero, tutti ormai trovano rifugio in Oasis, una piattaforma di gioco on-line in realtà virtuale. Attenzione: non ci sono raggi smaterializzanti alla Tron, o spine cerebrali alla Matrix, ma solo attrezzature poco più avanzate di quelle già esistenti, ossia visori a 360°, tute aptiche e simulatori di movimento. Si tratta di un dettaglio non di poco conto, perché Spielberg sembra dirci che indipendentemente dal contesto post-apocalittico, sta parlando di noi, di cose che conosciamo e in parte già facciamo. Dunque, le persone che giocano e vivono in Oasis non rischiano di morire o di essere “disconnesse”, ma questo non significa che perdere “una vita” non sia una tragedia. Infatti questa umanità che si è rassegnata al decadimento della realtà, investe tutto il suo tempo, le sue energie e i suoi bitcoin nella costruzione e nell’equipaggiamento del proprio avatar virtuale: morire nel gioco significa perdere tutto e ricominciare da capo. Ragion per cui c’è chi preferisce togliersi la vita sul serio, piuttosto che vedersi privato di tutto quello che era stato così faticosamente costruito.
In questo quadro, l’innesco narrativo è offerto dalla morte del creatore e proprietario di Oasis, James Halliday, il quale ha lasciato come una sorta di testamento una caccia a un easter egg: il primo giocatore che sarà capace di superare tre sfide difficilissime nascoste nel gioco e scoprire il “segreto” otterrà in premio il controllo di Oasis. Il cattivo del caso è Nolan Sorrento, proprietario della IOI, seconda potenza informatica del mondo, deciso a conquistare Oasis. L’arroganza sprezzante di Sorrento, che non comprende il significato e l’importanza emotiva dell’universo fantastico offerto dall’intrattenimento e vorrebbe solo trarne un vantaggio economico, sarà ovviamente sconfitta da Wade (nel gioco Parzival, come il cavaliere solitario della saga arturiana), con l’aiuto di un gruppo di ribelli che vogliono sottrarre Oasis al magnate. Le partite che si giocano per finta si combattono infatti anche nella realtà: chi si trova ad essere debitore dell’IOI è infatti costretto a lavorare forzatamente per la compagnia.
Tratto da un romanzo di Ernest Cline, che ha contribuito anche alla sceneggiatura, il film è costruito come una gigantesca macchina di citazioni dell’universo videoludico, del cinema (su tutti Stanley Kubrick) e della musica anni ’80: in una parola di tutto ciò che è cult anche e sopratutto per le generazioni contemporanee. Spielberg confeziona un film rivolto veramente a tutti: agli appassionati di videogiochi, ai cultori della musica e del cinema degli anni ’80, a chi li ha vissuti e oggi li ricorda e a chi non li ha mai visti ma si è trovato ad aver bisogno di crearsi un passato mitico. Per questo Ready Player One è anche un film furbo, anzi furbissimo (con tanto di bel messaggio ottimistico e paternalistico). Oasis nasce dalla fantasia di un uomo solo che nella vita non ha avuto il coraggio di fare il primo passo e di realizzare i suoi desideri: l’intrattenimento è quindi un rifugio, un luogo sicuro in cui immaginare diversamente la propria vita e proteggersi dai suoi pericoli. Per questo motivo, non si tratta solo di divertimento, ma di una “vita vera” fatta di affetti, di simboli, cose e ricordi ai quali siamo legati. Ricordi, che oltretutto non sono più nemmeno nostri: il citazionismo maniacale di Spielberg è talmente esagerato da essere una parodia di sé stesso. Come ci rifugiamo nel gioco o nel cinema, così lo facciamo mitizzando un passato percepito come cult. La lunga scena che ci riporta nell’Overlook Hotel di Shining può essere forse vista come un omaggio, ma anche come una dissacrazione: come a dire che con i mostri sacri si può e si deve giocare.
La morale della favola alla fine suona come un invito a tornare a investire nella realtà: il gioco, il cinema, l’intrattenimento in generale forniscono un immaginario ricco di possibilità, in cui possiamo veramente imparare, innamorarci ed esprimere almeno una parte di noi stessi. Tuttavia, non dimentichiamoci che viviamo nella realtà vera, dove il nostro impegno e coinvolgimento sono richiesti perché tutti possano infine vivere una vita migliore. Insomma una bella paternale, ma che tutto sommato val bene due ore abbondanti di inseguimenti, scazzottate, buoni sentimenti e synth anni ’80.
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