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Avete pianto come vitelli durante la visione di “The Shape of Water”? Avete distolto gli occhi di fronte alle dita purulente di Strickland? Oppure il vostro cinismo ha avuto la meglio e avete sbadigliato dall’inizio alla fine?
L’ultima fatica del Guillermone nostro, aggiudicatasi 4 Oscar (Miglior Film, Miglior Regista, Miglior Scenografia, Miglior Colonna Sonora), è senza dubbio e prima di tutto un omaggio al cinema dei tempi d’oro, e di questo gli siamo grati. A tutto il resto ci pensano le recensioni della redazione di AsinoVola.

The Shape of Water– visto da Margherita Fontana

Baltimora, anni ’60, guerra fredda. Elisa è una Cenerentola muta, lui è la Creatura, un mostro acquatico sottratto all’Amazzonia e tenuto prigioniero da agenti governativi molto cattivi. I due si guardano, si comprendono, si innamorano. Lei salva lui. Lui salva lei. Lieto fine. Come dice Guillermo del Toro, una storia che se la racconti ti fa sembrare ubriaco: e infatti oserei dire che The Shape of Water è un film per chi ama ubriacarsi di cinema, una storia semplice resa efficace da straordinarie interpretazioni e da una fitta trama di citazioni. Elisa (Sally Hawkins), che non può parlare ma ci sente benissimo, esprime la sua personalità esuberante attraverso il corpo e la danza, traendo spunti dall’immaginario delle commedie musicali con Fred Astaire e Ginger Rogers. Già, perché l’ultimo film di Guillermo del Toro rende omaggio a classici di Hollywood, dalle commedie musicali in bianco e nero con Shirley Temple, fino ai colossal biblici come La storia di Ruth (1960). Il cinema è il vero protagonista della vicenda: Elisa abita proprio sopra a una sala cinematografica e trascorre il tempo con il suo vicino Giles, omossessuale ed emarginato, guardando alla televisione vecchi telefilm. Del Toro sembra suggerire che vivere nella dimensione estesa dall’immaginazione rende possibile infrangere le barriere fino a confondersi con l’immaginario stesso: si può amare il mondo fantastico del cinema fino ad innamorarsi di una delle sue più assurde creature (il “mostro” è il Gill-Man de Il mostro della laguna nera, classico del 1954). Con La forma dell’acqua il regista mette in perfetta sinergia la trama romantica, il film horror e fantascientifico delle origini, un certo gusto per lo humor nero e lo splatter e la parodia di una spy-story ambientata durante la guerra fredda: il risultato è un film in equilibrio tra la poesia e l’intrattenimento, capace di far ridere e commuovere: un regalo per chi condivide con chi scrive la passione per il potere catartico del cinema (americano e a lieto fine).

The Shape of Water – visto da Yorgos Kostianis

Guillermo Del Toro, il favolista preferito di Hollywood, ritorna dietro la macchina da presa con un nuovo film indissolubilmente legato alla sua cifra stilistica onirica e fiabesca. Il film ruota intorno la “principessa senza voce” Elisa (Sally Hawkings), muta inserviente al centro di Ricerca Aerospaziale Occam di Baltimora, nel pieno della Guerra Fredda.
Elisa conduce un’esistenza silenziosa e solitaria. Trascorre le sue monotone giornate scandite dall’alienante susseguirsi di gesti automatizzati e di interazioni passive con il suo vicino Giles (Richard Jenkins), un decadente pittore omosessuale, e Zelda (Octavia Spencer) una collega afro-americana dalla vita matrimoniale spenta. Un giorno Elisa scopre che il colonnello dispotico Strickland (Michael Shannon) nasconde nel laboratorio una misteriosa creatura anfibia, catturata in Amazzonia, la quale metterà in moto gli ingranaggi di questa fiaba grottesca.
Il film è un prodotto discreto, magistralmente impacchettato con una componente tecnica di notevole spessore, ma allo stesso tempo pervaso da un inconfondibile odore di “già visto”. Del Toro, per sua propria ammissione, ha preso spunto da “Il Mostro Della Laguna Nera” coniugandolo a “La Bella e La Bestia” di Cocteau. Peraltro, la meravigliosa capacità espressiva di Hawkings non può che ricordare il fascino ritroso, sebbene ingegnoso, di Amélie di Jeunet; mentre la scenografia sembra curiosamente eccheggiare Delicatessen, seppur con le dovute sfumature di verde – colore che viene ripetutamente definito nel film come “il futuro”. D’altro canto, l’uomo-pisciforme del film non è soltanto l’immagine sputata di Abe Sapien, (personaggio del precedente film di Del Toro, Hellboy) ma è pure interpretato dallo stesso attore, Doug Jones. Perfino la Zelda di Spencer potrebbe essere scambiata per l’alter ego di Minny di The Help. Tuttavia, poco importa la discutibile “originalità” della sceneggiatura oppure la prevedibilità del film; complessivamente rimane pur sempre una piacevolissima opera romantica sulla incompletezza dovuta dalla solitudine e l’accettazione del diverso.
Il problema reale del film è la mancanza di equilibrio tra la costruzione di un microcosmo onirico e il contesto dell’atmosfera politica e morale dell’epoca. A differenza delle acute dicotomie allegoriche del suo vecchio labirinto, la forma eccelsa dell’acqua di Del Toro si perde in un bicchiere ben poco profondo.

The Shape of Water – visto da Elena Saltarelli

Questo film, diretto da Guillermo del Toro, ha fatto incetta di candidature (ben tredici per gli Oscar), ha vinto il Leone d’oro a Venezia, due Golden Globes e tre BAFTA. Come nell’illustre precedente (Il labirinto del fauno, ndr), del Toro si dimostra un cantastorie straordinariamente sensibile e sfaccettato, soprattutto quando si tratta di dare vita a una favola nera, in cui si mescolano elementi marcatamente sentimentali e dettagli grotteschi. Ciò dà luce a un contrasto estremamente bilanciato, dolce e amaro, sostenuto da un ritmo filmico musicale e incalzante.
Il mostro fluviale, citazione di Creature from the black lagoon (film del ‘54 diretto da Jack Arnold) e l’acqua, protagonista indiscussa dell’intero film, incorniciano perfettamente le innumerevoli tematiche toccate da quest’opera: la natura incatenata dalla mano di ferro dell’uomo (ambientato in piena Guerra Fredda) e il concetto di Buon Selvaggio esaltato dal Primitivismo del 17° secolo, di questa creatura che si dimostra più reale e pura dell’uomo civilizzato che la strazia e la tortura. Riferimenti teologici si possono evincere nella considerazione del Mostro come di un Dio che, benché si nutra di animali domestici possiede una profonda comprensione dell’emozione umana e una sensibilità artistica (come la musica che Elisa gli fa ascoltare sul bordo della vasca in cui lo vede per la prima volta, o i disegni di Giles che ha modo di vedere). Concludendo, questo è un film che deve essere ammirato come una favola, come una fantasia onirica in cui l’amore sovrasta la ragione e la logica dell’uomo positivista, liberandoci dalle catene del modernismo sterile e buttandoci in acqua, facendoci scoprire che anche lì sotto siamo capaci di respirare.