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a cura di Claudia Praolini

Ubik è una sezione non competitiva del festival in cui trovano spazio le opere dal linguaggio più innovativo. La ricerca di cortometraggi che sperimentano nuove strade di espressione è una prassi che sta alla base della valutazione e della selezione di tutti i film presenti a Concorto, ma con i corti presenti in Ubik ci si è spinti in territori ancora meno esplorati, dove il confine tra cinema e video arte si fa sempre più labile. È un cinema che parla di sé medesimo, un cinema che rivolge l’occhio verso sé stesso, rivelando senza pudore i meccanismi alla base della registrazione visiva, un cinema che, consapevole delle proprie strutture e del proprio specifico linguaggio, decide di “scoprire l’inganno” ma proprio questa procedura fa sì che lo “svelare” renda la visione opaca, come se il meta-cinema fosse una lente che funziona al contrario, in grado di offuscare gli strati infiniti di cui è composta la realtà e l’esperienza della visione.

I film selezionati 

a cura di Claudia Praolini

A L’entrée De La Nuit (At The Entrance Of The Night), Anton Bialas, France, 2020
All The Fires The Fire, Efthimis Kosemund Sanidis, Greece, 2019
Cultes, (La)Horde – Marine Bruttii, Jonathan Debrouwerarthur Harel, France, 2019
Electric Swan, Konstantina Kotzamani, France / Greece / Argentina, 2019
Freeze Frame, Soetkin Verstegen, Belgium / Germany, 2019
How To Disappear, Robin Klengel, Leonhard Müllner, Michael Stumpf, Austria, 2020
Mot Khu Đat Tot (Blessed Land), Pham Ngoc Lân, Vietnam, 2019

Recensioni a cura di Vanessa Mangiavacca

A L’entrée De La Nuit

Strutturato in tre parti, le vicende narrate dal regista francese Anton Bialas (Berlinale 2020) compongono un trittico sospeso tra la realtà e una dimensione sensoriale intangibile. L’opera si apre e si conclude con lo stesso nome, quello di Massimento, alternando buio, brevi squarci di luce e statiche immagini in negativo. Attraverso un filo non troppo invisibile che collega il nord Africa e il sud dell’Europa seguiamo, metaforicamente e non, la rotta migratoria di chi cerca un futuro migliore. L’oscurità, il sogno: quel luogo mistico in cui i nostri auspici e le libere associazioni prendono forma guidati da un’irragionevole seppur piacevole mano. Durante la notte le distanze si annullano e ogni unione diventa possibile, fino all’arrivo di un nuovo giorno. À l’entrée de la nuit è una risposta poetica alle catastrofi che colpiscono i nostri mari, un delicato idillio a tutte le anime perdute. Requiem for a dream, requiem for Massimento.

All the fires the fire

All the fires the fire (Locarno ’19) racconta la storia di due fratelli che passano le loro giornate tra le montagne con i propri figli, durante la stagione della caccia. Due branchi, quello canino e quello umano dei cacciatori si alternano davanti alla telecamera del regista greco: quel quotidiano così rude e mascolino è cautamente ritratto in una malinconica e asfittica banalità, fino al manifestarsi di un evento. Efthimis Kosemund Sanidis è riuscito a costruire un’abile narrazione all’interno della quale verità e apparenza si confondono: l’opera si apre con una visione apocalittica tratta dal Book of miracles e spinge la spettatore a cercare nella vicenda un epilogo “superiore”. L’apparente punizione cosmica alle usanze di quella società patriarcale trova in realtà la propria spiegazione in una delle storie più antiche mai riadattate, quella di Caino e Abele. Di fronte a quel nutrire costantemente uccelli per un intero anno, al solo scopo di cibarsene, emerge nient’altro che un profondo senso di compassione: si innesca così una spirale viziosa di avida violenza gratuita che ha come vittima finale l’uomo stesso.

Cultes

La video danza si rivela fin dagli albori genere congeniale per indagare e porre riflessioni sul ruolo dell’individuo e il suo comportamento all’interno della società, folla confusa di corpi in perenne movimento. In questo specifico caso, il collettivo (LA) HORDE si interroga sul ruolo del festival musicale e sull’evoluzione simbolica che esso ha subito a partire dagli anni Sessanta fino ad oggi. Mescolando diversi formati, il film è girato durante un vero festival, all’interno del quale cinque danzatori diventano i burattinai e i coreografi di quella danza di massa ignara. Woodstock nasce come simbolo della pacifica rivolta giovanile in nome dell’anticapitalismo, come occasione spontanea di libera unione e condivisione: le immagini sapientemente mostrate dal Collettivo svelano l’odierna faccia del festival, divenuto ormai rituale dedito al consumo incontrollato e al culto della merce; del resto, il messaggio hippie ha perso nel momento in cui nel 1971 la Coca Cola si serve di esso per realizzare una delle sue più celebri pubblicità (ce lo ricorda la canzone finale, la stessa usata per quella campagna). L’uomo, oggetto finale, osservato da vicino in quel tempio consumistico nella sua illusione di libertà e spontaneità, viene ritratto nella sua forma bruta: permane, nonostante ciò, una sorta di dimensione sacrale in quel raduno di corpi, sospesa tra estasi e sgomento.

Electric Swan

And the higher you live, the more you tremble.

Kostantina Kotzamani è ormai una regista più che affermata nell’ambiente del corto internazionale: giurata a Concorto nel 2016, il suo nome ritorna con l’ultimo film, presentato in anteprima mondiale a Venezia ’19. Electric Swan racconta di un palazzo di Buenos Aires, delle vite che lo abitano, nonché della città stessa:
attraverso i nove piani di quello stabile e le sue incerte mura, viene ricostruita una precisa allegoria della piramide sociale e dei divari tra classi che dominano la capitale. Concreto e favolistico avanzano delicatamente: la realtà argentina vista con gli occhi del cinema greco genera un connubio magico, sospeso, visionario, all’interno del quale Kotzamani ci invita ad un surreale atto di fede non solo nei suoi confronti ma anche verso i suoi personaggi. Prende vita un affresco architettonico, un disegno umano che coinvolge ricchezza, povertà, magia, astri, vecchiaia, adolescenza, supposizione, morte, vita, bellezza, tristezza, desolazione, inquietudine: dalle crepe, il palazzo assorbe tutti questi elementi e percezioni umane restituendoli in instabili geometrie e inaspettate metamorfosi.

Freeze Frame

Il fermo immagine è la tecnica con cui un’immagine in movimento viene fermata, congelata: il ghiaccio, è appunto il soggetto di questo meta-cortometraggio realizzato in stop motion, fantasioso omaggio al cinema scientifico delle origini e al concetto stesso di scoperta, cinematografica e non. Bizzarra e originale l’idea di scegliere come soggetto quella tecnica che annulla l’invenzione stessa del cinema: in direzione inversa agli esperimenti cronofotografici di Etienne Jules Marey (più fotografie messe insieme per creare movimento, a partire dal volo degli uccelli), le immagini della giovane Soetkin Verstegen rievocano piuttosto le opere d’avanguardia di Jean Painlevé sulla fauna sottomarina. La luce, il movimento, la materia, la natura: la regista sembra divertirsi giocando con questi elementi, “fossilizzando” piccoli rettili in quei finti frammenti d’ambra e celluloide; rane bianche, trasparenti, saltano su sfondi neri in un insieme di eleganti raggi X. Ogni cubetto di ghiaccio è una sorta di piccolo fragile archivio filmico in pericolo, da conservare: diligentemente curato in ogni sua parte sono molteplici le connessioni che possono prendere vita da questi soli cinque minuti di opera sperimentale.

How to disappear

Total Refuse è un collettivo nato nel 2018 le cui opere prendono vita e forma attraverso il metodo del détournement situazionista (come da loro dichiarato): essi utilizzano l’estetica e la logica del videogioco, mezzo d’espressione da loro stessi criticato, per sviscerarne le strutture di fondo e la dubbia valenza ludica di cui esso si fa carico. Ciò che viene contestato nello specifico con How to diasppear è la rappresentazione che il media in questione fa della guerra, prendendo come riferimento il famoso wargame Battlefield. Total Refuse effettua una pungente riflessione politica sul ruolo dei videogiochi di guerra (guerra, fine a se stessa) ponendo l’accento sulla loro portata anti-sociale e sul feroce spettacolo all’interno del quale il giocatore desidera fare parte. L’opera ripercorre cronologicamente il ruolo del disertore, figura non concepita all’interno del videogioco, nonostante sia da sempre esistito nelle più grandi battaglie della storia. Mostrando gli aspetti più assurdi del wargame, criticandone al contempo la colossale industria capitalista (nel 2019 il mercato del videogioco ha superato i 120 miliardi di dollari) quest’opera di alto acume invita ad un ripensamento del ruolo del giocatore: e se il vincitore fosse colui capace di opporsi alle violente e apatiche logiche imposte, trovando un modo per far regnare la pace?

Blessed Land

Senza tempo, senza luogo: su queste due non-dimensioni sembra costruirsi la vicenda di Blessed land, pur essendo ambientata (effettivamente) nel giorno di Saint Andrews, in un cimitero vietnamita smantellato in buona parte per fare spazio a un campo da golf. Sulla contrapposizione visuale e simbolica di questi due spazi, si sviluppano due storie socialmente lontane, sinonimo del divario economico che divide la popolazione vietnamita e sovente ritratto dal cinema asiatico. Due coppie di personaggi si incontrano grazie a giochi di zoom e spostamenti veloci di macchina, attraverso i quali i dettagli della natura vengono scrutati e ingigantiti. Il brusio dei venti amplificato, le tinte bianche e nere, le sfumature seppia, non fanno che alimentare la dimensione contemplativa di quella “terra benedetta”. Lan Pham Ngoc ci mostra come progresso e perdita siano due stadi concatenati, realizzando un’ode all’unico luogo eterno capace di resistere a suo modo, serbando persone, luoghi, momenti scomparsi o cancellati: la memoria.

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