a cura di Claudia Praolini | recensioni a cura di Vanessa Mangiavacca
Ubik è una sezione non competitiva del festival in cui trovano spazio le opere dal linguaggio più innovativo. La ricerca di cortometraggi che sperimentano nuove strade di espressione è una prassi che sta alla base della valutazione e della selezione di tutti i film presenti a Concorto, ma con i corti presenti in Ubik ci si è spinti in territori ancora meno esplorati, dove il confine tra cinema e video arte si fa sempre più labile. È un cinema che parla di sé medesimo, un cinema che rivolge l’occhio verso sé stesso, rivelando senza pudore i meccanismi alla base della registrazione visiva, un cinema che, consapevole delle proprie strutture e del proprio specifico linguaggio, decide di “scoprire l’inganno” ma proprio questa procedura fa sì che lo “svelare” renda la visione opaca, come se il meta-cinema fosse una lente che funziona al contrario, in grado di offuscare gli strati infiniti di cui è composta la realtà e l’esperienza della visione.
I film selezionati
a cura di Claudia Praolini
A LOVE SONG IN SPANISH, Ana Elena Tejera, 2020, PANAMA/FRANCE
AUGAS ABISAIS (DEEP WATERS), Xacio Bano, 2020, SPAIN
FOREVER, Mitch McGlocklin, 2020, USA
GRAMERCY, Jamil McGinnis, Pat Heywood, 2020, USA
PACIFICO OSCURO, Camila Bletran, 2020, COLOMBIA, FR
Księżyc (THE MOON), Tomasz Popakul, 2020, POLAND
Recensioni a cura di Vanessa Mangiavacca
A LOVE SONG IN SPANISH, Ana Elena Tejera
A love song in Spanish è studiato come una doppia performance, un dialogo visivo e sonoro tra passato e presente, tra la Panama sotto regime degli anni ‘80 e gli effetti e le insidie di quest’ultima sulle vite delle persone che l’hanno vissuta. Ana Elena Tejera apre cassetti dolorosi lasciati socchiusi per decenni, sulla Storia del proprio Paese e di conseguenza su quella della propria famiglia. Attraverso le immagini d’archivio la regista si avvicina per la prima volta a giorni e ricordi tacitamente censurati del proprio nonno – mandato soldato a Israele – e della propria nonna, protagonista del cortometraggio. Alla dittatura politica se ne affiancano altre meno visibili, quella domestica ed emotiva: i lasciti della prima si espandono come cerchi concentrici inesauribili, inglobando ogni stralcio di umanità e ancora oggi dopo 40 anni mostrano i segni di quelle ferite, non ancora rimarginate.
AUGAS ABISAIS (DEEP WATERS), Xacio Baño
I fotofori sono organi in grado di riprodurre luce di cui sono dotati molti dei pesci che vivono nei fondali marini. Non affondano navi, non ingoiano eroi, ma rischiarano con la loro luminescenza. Il mondo animale, inesplorato e non, ci offre nelle sue affascinanti particolarità dinamiche e comportamenti da fare nostri.
Xacio Baño parte dalle tenebre, dalle segrete profondità degli abissi per comprendere e lucidamente scrutare la superficie. Al buio, la luce: due parti complementari come le due parti del film, tra favola scientifica e forma documentaristica. Tra la scelta di vedere o non vedere, il regista opta per la seconda e su questa premessa sviluppa Deep Waters, un’immersione nelle acque sotterranee della storia del proprio paese e della sua famiglia, nelle memorie singole scritte e orali della guerra civile spagnola. Così come in A love song in Spanish, sembra sia giunto il momento di fare luce sulle pagine più oscure del secolo scorso.
FOREVER, Mitch McGlocklin
I watched C-beams glitter in the dark near the Tannhauser gate.
Forever ricorda uno di quegli incubi in cui stai scappando da qualcosa e a un certo punto inciampi e cadi in un buco nero senza fine, finchè di soprassalto non ti svegli con il fiato corto. Con una differenza: nel brevissimo film di Mitch McGlocklin non c’è né agitazione, né preoccupazione, ma una gravosa, piatta e consapevole calma. Esperto di VR, il regista americano traduce visivamente quel “buco nero” con la tecnica LiDAR (Light Detection and Ranging), un metodo di telerilevamento solitamente utilizzato per le auto a guida autonoma che utilizza la luce per catturare persone e luoghi: l’algoritormo restituisce un’immagine costellata da interazioni luminose che definiscono le sagome e i loro confini, in una sorta di pointillisme digitale. Sarà sempre un algoritmo (un’altro) a decidere che Mitch è un soggetto troppo a rischio per avere un’assicurazione sulla vita, complice una storia di abuso di alcool e antidepressivi. La presa di coscienza della propria limitatezza – di una morte non troppo lontana – si materializza fino ad innescare una reazione contraria: da onnipresente minaccia, l’algoritmo si evolve in silente compagno e quel processo di disumanizzazione diventa l’unica garanzia per vivere in eterno.
GRAMERCY, Jamil McGinnis, Pat Heywood
My soul has grown deep like the rivers.
Gramercy racconta la storia di Shaq, del suo ritorno a casa e del rapporto con gli amici di sempre. Il giovanissimo duo di registi americano Jamil McGinnis e Pat Heywood riesce in un’operazione molto delicata, mostrare il punto di vista di una persona affetta da depressione in un momento qualunque. Precise scelte di sceneggiatura palesano lo smarrimento del protagonista: la telecamera ruota, a rimarcare una distanza e a levare una sorta di invisibile scudo protettivo, un sensibile spazio limite al quale nessuno è permesso oltrepassare. Al mondo reale in bianco e nero si alterna una film mentale a colori, un silenzioso e isolato paesaggio naturale in cui trovare pace. Gramercy è un’opera estremamente contemporanea che parla della giovane generazione occidentale di oggi e palesa con lucidità uno dei più grandi tabù e problemi della nostra società.
PACIFICO OSCURO, Beltran Camilia
La musica e i suoni della propria comunità rappresentano un simbolo di appartenenza e unione individuale e collettiva specialmente in realtà come quella colombiana. C’è uno spirito sinuoso ed errante che si muove tra i giovani volti senza nome di Pacifico Oscuro, nei continui balzi tra digitale e analogico, tra nitidezza e offuscamento. Estinzione e perdita sono tra le tematiche principali del cinema colombiano contemporaneo, dove spesso a rischio è quel patto ancestrale con la natura e tutte le energie e credenze ad essa collegata. Camilia Beltran sviluppa la propria storia partendo dall’antica leggenda secondo la quale, nel passato, le donne scendevano a patti con forze mistiche per imparare a cantare e la voce narrante ci introduce ad essa con una premessa: per credere a questa storia – senza averla mai vissuta – bisogna compiere un grosso atto di fede. Allora crediamo e ci affidiamo, al canto e al grido della nuova generazione, questa volta a guida femminile, nella speranza che abbia la prontezza di preservare il perduto e rimediare ai continui errori del presente.
THE MOON, Tomek Popakul
In tanti si ricorderanno di Tomek Popakul, regista di origine polacca dello psichedelico Acid Rain (in concorso a Concorto nel 2019). Prendete quel corto e togliete quella tavolozza di colori eccentrici, i volti, le voci, gli istinti, tutto.
The Moon – realizzato in pieno lockdown – è un’animazione anomala che racconta il mondo durante i peggiori mesi della pandemia da Covid-19 e il senso di solitudine, paura, sfacelo e abbandono che ognuno di noi ha provato. Un personaggio senza volto si muove in una città spettrale e senza nome. Il cortometraggio di Popakul è doloroso perché è la riproduzione di un nulla, di un abisso profondo. Nell’ultimo anno sono state molte le opere che hanno cercato di rappresentare con parole, gesti, immagini le sensazioni di quel periodo complesso. La verità qual è? Che non c’è niente da dire.
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