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a cura di Claudia Praolini | recensioni a cura di Vanessa Mangiavacca e Chiara Ghidelli

Ubik è una sezione non competitiva del festival in cui trovano spazio le opere dal linguaggio più innovativo. La ricerca di cortometraggi che sperimentano nuove strade di espressione è una prassi che sta alla base della valutazione e della selezione di tutti i film presenti a Concorto, ma con i corti presenti in Ubik ci si è spinti in territori ancora meno esplorati, dove il confine tra cinema e video arte si fa sempre più labile. È un cinema che parla di sé medesimo, un cinema che rivolge l’occhio verso sé stesso, rivelando senza pudore i meccanismi alla base della registrazione visiva, un cinema che, consapevole delle proprie strutture e del proprio specifico linguaggio, decide di “scoprire l’inganno” ma proprio questa procedura fa sì che lo “svelare” renda la visione opaca, come se il meta-cinema fosse una lente che funziona al contrario, in grado di offuscare gli strati infiniti di cui è composta la realtà e l’esperienza della visione.

I film selezionati 

a cura di Claudia Praolini

(Third Study For) Swedge Of Heaven, Richard Forbes-Hamilton, UK (2020)

Happyness Is A Journey, Ivete Lucas E Patrick Bresnan, USA, Estonia (2021)

Her Violet Kiss, Bill Morrison, USA (2021)

Impersonator, Andrew Norman Wilson, USA (2022)

Saint Jean Baptiste, Jean Baptiste Alazard, Francia (2020)

Songs For Dying, Korakrit Arunanondchai, Tailandia (2021)

St Jude, Pauline Quinonéro, Francia (2021)

Recensioni a cura di Vanessa Mangiavacca

IMPERSONATOR 

Non sono sei personaggi in cerca d’autore, piuttosto il contrario: un autore alla ricerca di numerosi personaggi, alter ego e ritratti da impersonificare. Tra i reticoli dell’industria cinematografica hollywoodiana viene da chiedersi se sia stato il cinema a trarre ispirazione dalla vita reale o viceversa. In Impersonator un uomo senza nome, senza volto e senza casa in una versione stormtrooper 2.0 attraversa le vie di Los Angeles. Il moto costante genera un sovraccarico sensoriale che colpisce prima di tutto la mente e restituisce l’agitazione costante e quotidiana che assorbe un essere alla ricerca della propria posizione sociale. Spaziando tra diversi generi cinematografici – fantascienza, horror, thriller – e l’arte contemporanea, l’artista americano Andrew Norman Wilson realizza una sottile parabola dell’industria dell’intrattenimento e dello stato di deriva morale e psicologica a cui sono costretti i suoi attori e coloro che la subiscono. 

HER VIOLET KISS

Bill Morrison non ha bisogno di presentazioni. Tre i più importanti registi di found footage contemporanei, con il suo ultimo cortometraggio l’artista americano conferma la sua passione per il materiale d’archivio e le immagini in movimento delle origini. Her violet kiss è pulsante, è un cuore materico, un’emulsione viva di sentimenti che si impastano con immagini capaci, nonostante tutto, di resistere al tempo. Tensione narrativa e visuale emergono a partire dall’incontro di una donna con un uomo misterioso in una festa anni Venti: nasce così un’ode di pochi minuti all’immortalità del cinema e alla sua eterna capacità di reinventarsi.

HAPPINESS IS A JOURNEY 

Happiness is a journey è Il documentario commissionato dal The Guardian al duo composto da Patrick Bresnan e Ivete Lucas: entrambi seguono le giornate sempre uguali di Eddie “Bear” Lopez, uomo sulla sessantina abitante di Austen che da 20 anni lavora, senza avere mai un giorno di riposo, nel magazzino di stampa dell’Austin American Statesman. Notizie e informazioni su carta finiscono ancora davanti agli zerbini degli (pochi) americani, privi dell’immaginario idilliaco che ci ha sempre fatto immaginare bravi ragazzi sulla loro bicicletta fare il giro del quartiere lanciano l’ennesimo quotidiano in corsa. La realtà è ben diversa e mostra lavoratori e lavoratrici sottopagati che passano le notti, compresa quella di Natale, a piegare fogli raccontare di crisi, ingiustizie e drammi sociali. 

Così Eddie colleziona oggetti di ogni tipo e il suo altare è un monumento inconsapevole al capitalismo e l’irrefrenabile desiderio di accumulo, ritratto della stessa Austin. Negli spaccati del film – anche estetici, dati dallo schermo split screen – è impossibile non scorgere una città destinata a scomparire soffocata dalla grandezza e dai processi di gentrificazione.

SAINT JEAN-BAPTISTE

Giovanni Battista è stato uno dei santi più raffigurati nella storia dell’arte occidentale ma anche oggetto di vari adattamenti cinematografici. Questi ultimi compaiono anche nel cortometraggio del regista francese Jean-Baptiste Alazard. Alternando found footage di vecchi film a riprese amatoriali, il film è il tentativo non presuntuoso ma fortemente coraggioso di fissare e fare proprio il pensiero e l’atteggiamento del santo-profeta spogliandolo dei richiami religiosi. Si snoda una dichiarazione cosmica e assoluta fissata su fotogrammi – “ce sont les images qui restent” – dedicata agli amici e volta alla celebrazione dei legami umani. Tutto si trasforma in una grande festa, in un rito pagano, in un’unione comunitaria, in cui amare lo sconosciuto che chi ci sta accanto diviene il punto di rottura e ribellione, un atto sovversivo capace di ricondurre a un ripensamento dei valori sui quali si è sempre costruita la società. Saint Jean-Baptiste è un film militante e carico di sana follia, un grido disperato al cambiamento a cui rispondere, senza esitazione.

Recensioni a cura di Chiara Ghidelli

ST. JUDE

Nel silenzio e nella notte di un quartiere che potrebbe appartenere a qualsiasi città, il corpo di Elisabeth si muove esplorando sé stesso e la propria storia. Con il chiaro obiettivo di ritrovare un amore misteriosamente perduto ma ancora vivo, l’anima di Elisabeth parte per questa ricerca. Unica guida, una voce in un walkie talkie con una lunga storia da raccontare. Intrecciando suggestioni sonore ipnotiche e fluide con immagini surreali e prive di spazio-tempo, St. Jude riesce a ricreare i movimenti di un’anima tormentata dall’inspiegabile scomparsa dell’amata. Una storia d’amore e di fantasmi in un intreccio che ricostruisce il linguaggio del sogno e del ricordo. La storia di un incontro fatto di immagini che arrivano da un tempo lontano ma non ancora del tutto passate. 

(THIRD STUDY FOR) SWEDGE OF HEAVEN

Paesaggi familiari, statue di legno e umanoidi con la testa a forma di smile. L’ultimo progetto di Richard Forbes-Hamilton è un flusso di immagini caleidoscopiche e in continua trasformazione che sperimenta diverse tecniche di animazione digitale, dalla rielaborazione 3D di paesaggi reali alla progettazione di personaggi al computer. Giocando sulla riconoscibilità delle immagini appartenenti al nostro repertorio della memoria, (Third Study for) Swedge of Heaven trasporta l’occhio da luoghi apparentemente conosciuti (molti ispirati alla natura dell’Essex) a mere forme geometriche prive di contesto o realismo, astraendo la realtà e costringendo chi osserva a slacciare la comprensione del flusso di immagini da qualsiasi tipo di riferimento. A popolare queste nature surreali, silenziosi personaggi appartenenti a culture tribali e rituali che danno vita a un mosaico di pulsazioni e suggestioni sul rapporto che da sempre intercorre tra natura e cultura. 

SONGS FOR DYING

In un progetto che ibrida documentario, immagini di repertorio e scenari magici e irreali, l’artista thailandese Korakrit Arunanondchai costruisce un saggio sulla morte attraverso uno sguardo che la indaga sotto più luci ed accezioni. Raccontando paesi e culture in cui i confini tra vita e morte sono sottili e indefiniti, Songs for dying riesce a unire il pubblico e il privato, la piccola storia con la grande storia. Dal racconto della morte di un suo caro alla denuncia della morte di massa, l’artista testimonia quanto la morte possa caricarsi di un pesante valore politico, generando energie a piccolo o ad ampio raggio capaci di scandire per capitoli la storia dei singoli e delle nazioni, cambiandola in modo irreversibile. In entrambi i casi, speranza: Songs for dying si dimostra elogio alla vita che, nonostante tutto, trova il modo di conquistare nuovi spazi. 

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