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Sebastián Lelio, giunto al suo terzo lungometraggio di respiro internazionale e reduce dall’Oscar per Una Mujer Fantástica, ci porta in una Londra dai toni sommessi e trattenuti, dipingendo una storia che apparentemente sembra un melò vecchio stile e che invece nasconde un dilemma quasi teologico sull’annosa questione del libero arbitrio.

Vediamo come se la sono cavata Sofia, Margherita, Yorgos ed Elena con i dettami dell’ebraismo ortodosso.

Disobedience – visto da Sofia Brugali

La morte del padre, rabbino della comunità ebraica londinese, richiama Ronit alla città natale e con il suo ritorno si risveglia il sentimento di una colpa antica, un episodio passato in un primo momento solo sotteso, bisbigliato: Ronit non è attesa, Ronit non sembra essere la benvenuta. Lo spettatore sente il peso della morale comunitaria gravare sulla protagonista, ma non capisce, non può capire fino a quando il peccato non si ripropone nel presente, sotto i suoi stessi occhi, con la violenza delle cose lasciate in sospeso, con l’intensità di un amore mai capito, mai dichiarato, mai finito, tra Ronit e l’amica Esti.
A fatica, il peso della colpa diviene consapevolezza della volontà, la libertà di scegliere supera il dogma e lo spettatore, così come il marito di Esti, comprende infine le parole del rabbino: “Cos’è questa cosa?” chiede egli poco prima di morire “Uomo? Donna? È un essere con la capacità di disobbedire”.

Disobedience – visto da Margherita Fontana

Disobedience del cileno Sebastián Lelio ci porta nella comunità ebraica di Londra dove Ronit
Krushka (Rachel Weisz) ritorna in seguito alla morte del padre, il Rav. La sua presenza inaspettata sconvolgerà la vita di Dovid (Alessandro Nivola) e Esti (Rachel McAdams), amici d’infanzia di Ronit e oggi marito e moglie. Esti e Ronit si amano come si sono sempre amate e si trovano riunite dopo il tentativo di entrambe di fare i conti con la propria storia (e la propria religione): mentre Ronit ha scelto di chiudere con il passato andando dall’altra parte dell’oceano per diventare fotografa a New York, Esti cerca di domare il suo desiderio per conservare il legame con la sua fede. Ed è proprio di questo che il film sembra parlare, di libertà, desiderio e amore. Disobedience è costruito infatti come una parabola a commento delle ultime parole del Rav, morto spiegando di fronte ai fedeli riuniti in sinagoga la natura dell’uomo, a metà tra quella degli esseri celesti e bestiali. Esti e Ronit, il cui amore è stato soffocato in una società di uomini, sono tuttavia solo due lati di un triangolo completato da Dovid, chiamato a diventare il successore del Rav: è lui infatti che più di tutti incarna il problematico rapporto tra libertà e fede che costituisce il cuore del film.

Disobedience – visto da Yorgos Kostianis

Mentre quasi tutte le sale erano affollate di gente che piangeva guardando la polverizzazione letterale degli Avengers, il regista premio Oscar Sebastián Lelio è tornato, con passo felpato, presentando il suo esordio in lingua inglese che porta il marchio delle sue opere precedenti sebbene con un tono notevolmente diverso.
Disobedience segue la storia di Ronit (Rachel Weisz), una espatriata britannica che conduce una vita bohémienne come fotografa a New York. Dopo aver scoperto che suo padre, stimato rabbino capo, è mancato, Ronit decide di tornare a Londra per il suo funerale, nella comunità ebraica ortodossa dalla quale è stata scomunicata per aver condiviso un amore fugace con l’amica Esti (Rachel McAdams).
Durante il funerale scopre, con sua grande sorpresa, che Esti è ora sposata con Dovid, il protetto del fu suo padre. Nonostante tutto, la riunione delle due donne riaccenderà l’antica passione, mai realmente sopita e ritenuta inaccettabile dall’intera comunità.
Nei suoi film precedenti, Lelio ha dimostrato la sua impareggiabile capacità nel ritrarre donne bramose di legami che vanno contro l’ortodossia prevalente. Eppure, rispetto alla sua radiosa Gloria (2013) e all’agonizzante Una Donna Fantastica (2017), nel suo ultimo film i colori sembrano sbiaditi, le emozioni riservate e la narrazione misurata. Con un dialogo quasi borbottato e descrizioni minimali, Lelio crea un’atmosfera claustrofobica che si percepisce in modo tanto eloquente quanto commovente attraverso le eccellenti performance di entrambe le Rachel. Ciò nonostante, la sfacciata mancanza di sviluppo caratteriale e il ritmo letargico lasciano un po’ a desiderare. Il film rimane invischiato tra il tema principale della insubordinata libertà di scegliere e il melodramma romantico culminando in un finale fiacco e leggermente cliché.
Detto questo, la disobbedienza trova congruamente il suo posto nella filmografia di Lelio, fatta di odi trascendenti alla passione proibita e di un ardente desiderio di connessione. Degna di menzione è anche la colonna sonora molto interessante di Matthew Herbert e l’emozionante scena in cui le due amanti canticchiano timidamente Lovesong dei Cure, immedesimandosi tacitamente con il testo.

Disobedience – visto da Elena Saltarelli

Un ricco quartiere residenziale londinese, la misura perfetta degli steli d’erba nei parchi, la chiara e pulita carta da parati sulle pareti. In quest’opera del regista cileno Sebastián Leilo, l’armonia compassata dell’atmosfera comprime una passionale storia d’amore, soffocata da anni, tra le due protagoniste, Ronit ed Esti.
Questo film poggia le sue basi sovrapponendo dualismi, cercando uno scontro che poi non si verifica mai. O meglio, si verifica nello scorrere del plot, ma non esplode emotivamente e fotograficamente, non si imprime in modo netto ma circostanziando la vita dei personaggi.
La religione, piuttosto che vero e proprio ostacolo alla liberazione sessuale ed emotiva delle due figure principali, diventa un elemento estetico fortemente affascinante e una culla dentro la quale la passione sfocia, senza essere mai un vero motivo di contrasto. Proprio l’elemento religioso ci regala degli stupendi momenti corali: la lontananza tra Ronit e il padre rabbino, la cui morte diventa causa scatenante del ricongiungimento con la sottomessa Esti, rivelatasi poi l’elemento su cui converge l’intera narrazione; la liberazione di quest’ultima dal suo matrimonio con Dovid, proclamata a gran voce durante l’elogio funebre. L’amore che va oltre il saper comunicare efficacemente, oltre la comprensione preliminare, detto con un semplice “Scusami se non riesco a comprendere” – summa dell’intero film.
Quasi del tutto assente lo stile incisivo che poteva presagire da un titolo così netto e provocatorio, ma comunque un ottimo esempio di emancipazione autentica dall’interiorizzazione comunitaria.